Open Forum - Officina di Cultura per l‘Uomo
Napoli, 27 maggio 2008
Clonazione: quali prospettive di libertà per l’uomo
Prof. Giulio Tarro
È proprio di questi giorni la "realizzazione", presso il laboratorio di Tecnologia della riproduzione di Cremona, di due maialini (chiamati Apollo e Circe) geneticamente modificati (sono privi dell'antigene alfa-Gal, principale fattore causa di rigetto iperacuto) allo scopo di essere utilizzati come fonte di organi per xenotrapianti nell’uomo. Una notizia che certamente ha suscitato meno polemiche di quelle sugli "embrioni chimera", realizzati in Gran Bretagna nell’inverno scorso o della fondazione, nel marzo di quest’anno, di una azienda finalizzata alla duplicazione degli animali domestici, (annunciata il mese scorso dall’ineffabile ex professore coreano Hwang Woo-suk) ma che evidenzia come stia diventando routine una pratica che fino a poco tempo fa sembrava essere confinata nei libri di fantascienza: la clonazione.
Il termine "Clonazione" è una neoformazione linguistica sul ceppo di una parola relativamente recente: "clone" (pare, apparso per la prima volta nel 1934 in un romanzo di fantascienza), la quale deriva dal poetico greco "klon" che significa germoglio. Nel parlare comune il termine ha finito per significare "riproduzione di una più copie autentiche" ed è interessante notare come questo termine, secondo un sondaggio recentemente commissionato dalla Comunità Europea, venga percepito da quasi il 70% della popolazione come una "funerea catena di montaggio" (era questa una delle risposte al questionario). Sul perché di questa sinistra lettura della clonazione mi soffermerò più avanti; accenniamo, intanto, su alcuni aspetti scientifici della clonazione.
La storia della clonazione comincia, sostanzialmente nel 1902 quando uno studioso tedesco, Hans Spemann, con un cappio ottenuto da un singolo capello del suo piccolo figlio, divise in due un embrione di salamandra, composto da due cellule: ciascuna cellula crebbe fino a diventare una salamandra adulta. Qualche anno dopo Spemann, per capire se il nucleo di una cellula differenziata fosse in grado di riprogrammare l'informazione espressa, propose di prelevare il nucleo da una cellula di un embrione in avanzata fase di sviluppo e trasferirlo nel citoplasma di una cellula uovo enucleata. L’esperimento, comunque, per la mancanza di strumenti adatti alla manipolazione e dissezione delle cellule somatiche e germinali, fu possibile solo nel 1952 quando R. Briggs e T.J. King prelevarono il nucleo di una cellula embrionale di rana, allo stadio di blastula (il primo stadio di sviluppo dell'embrione, dopo la segmentazione e prima della gastrulazione), e lo trasferirono in una cellula uovo enucleata (privata del nucleo): il 60% di tutti i nuclei trasferiti portarono a girini, ma non superarono mai questo stadio. Nel 1962 J. Gurdon utilizzando il trapianto in serie (cioè ponendo un nucleo intestinale in un uovo, lasciandolo sviluppare fino allo stadio di blastula e poi trasferendo i nuclei delle cellule della blastula in altrettante uova) ottenne 7 girini che si trasformano in rane adulte fertili.
Con questo esperimento la strada verso la clonazione di animali apparentemente "normali" (capaci, cioè di crescere e riprodursi) è spianata. Nel 1997 il più clamoroso "successo". Nasce la pecora Dolly, il primo animale clonato a partire da cellule somatiche adulte e quindi completamente differenziate. Nell'esperimento, effettuato dal gruppo di ricerca di Ian Wilmut, cellule dalla ghiandola mammaria di una pecora adulta furono disgregate e mantenute in un terreno di coltura privo di alcuni nutrienti per rallentarne la divisione cellulare e bloccarle in una fase del ciclo chiamata G0 (stadio di quiescenza). Le cellule furono poi incubate in un terreno contenente il virus Sendai il quale si lega alla membrana plasmatica delle cellule somatiche e serve successivamente a facilitarne la fusione con l'oocita. Furono trasferite 277 cellule somatiche in altrettanti oociti prelevati da pecore di razza diversa. Di questi, 29 si svilupparono fino allo stadio di morula/blastocisti e vennero trasferiti nell'utero di 13 femmine surrogate. Di queste 29 blastocisti solo una completò lo sviluppo fino alla nascita, la famosa Dolly.
Dopo quel famoso risultato, che susciterà un mare di polemiche, ricerche sulla clonazione di cellule umane (in qualche caso travisate da annunci rivelatisi poi truffaldini, come quello del coreano Hwang Woo-suk che, nel 2004, dichiarava la "realizzazione" di un feto umano di cinque mesi) si susseguono incessantemente. Nel 2001 Robert Lanza della Advanced Cell Technology ottiene da una cellula di ovaie femminili un embrione che arriva allo stadio di sei cellule. Nel 2005 un team dell’Università di Newcastle ottiene un embrione umano capace di giungere allo stadio di blastocisti da una cellula staminale embrionale. Nel gennaio 2008 un team diretto da Andrew J. French ottiene lo stadio di blastocisti da nuclei delle cellule della pelle, introdotti in ovociti privati dei loro nuclei.
È importante sottolineare, comunque, come questo esperimento (e altri ad esso collegati, che si sono susseguiti negli ultimi mesi), non mira certamente a creare un embrione umano da fare trasformare in organismo autonomo ma, bensì, quello di ottenere una sorta di "marcia indietro nelle cellule così create ottenendo così cellule staminali - strumento prezioso per curare le malattie causate dalla degenerazione di un organo - evitando di utilizzare ovuli di donna: una scelta quest’ultima che comporterebbe gravi problemi etici. In Gran Bretagna il King's College di Londra e l'università di Newcastle, nel marzo di quest’anno, hanno perciò ricevuto il via libera definitivo dell'Autorità britannica per l'embriologia e la fecondazione per realizzare embrioni ibridi con ovuli di animale e nuclei umani: una direttiva questa che, nella sostanziale ignoranza scientifica che avvince buona parte dell’opinione pubblica, ha, comunque, scatenato polemiche che in molti casi hanno assunto il tono di crociata.
Occupiamoci, quindi di alcuni aspetti del dibattito degli aspetti etici della clonazione.
Come già detto, le attuali ricerche sulla clonazione umana non mirano, certo, alla creazione di embrioni o, addirittura di feti, che, come in un romanzo o film dell’orrore (mi viene a mente a tal proposito la davvero avvincente pellicola "Alien IV "dove l’eroina del film Ellen Ripley si trova combattere con dei mostri creati da embrioni ottenuti da cellule a lei prelevate un secolo prima) resterebbero a disposizione di infami scienziati ma, bensì, di cellule staminali di particolare capacità generativa. Occupiamoci, quindi, della clonazione delle cellule staminali umane, tecnica che – come, probabilmente non ricorda più quasi nessuno in Italia – è stato al centro del referendum tenutosi appena tre anni fa (il 12 giugno 2005) per abolire alcuni punti della Legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita.
Il referendum, come è noto, è stato invalidato dal mancato raggiungimento del quorum confermando la Legge 40 nella sua interezza; nel giugno 2006, comunque l’allora ministro per la Ricerca Scientifica, Fabio Mussi, tentò una parziale correzione della legge rimuovendo il blocco del governo italiano alla ricerca europea sulle staminali; un provvedimento, tuttavia, avversato dalla lobby cattolica, raccolta intorno alla senatrice Binetti, che ha finito per neutralizzare questo pur timido tentativo di allineare la ricerca scientifica italiana a standard europei accelerando così l’esodo di non pochi genetisti e ricercatori italiani verso l’estero.
Le posizioni favorevoli o contrarie alla clonazione delle cellule staminali umane per scopi terapeutici (e, cioè, sostanzialmente per la creazione di strutture biologiche non soggette a rigetto con i quali sostituire parti malate del corpo umano in alternativa all'incurabilità e/o all'uso problematico di organi bionici preparati in laboratorio) possono così essere sintetizzate.
La Chiesa considera anche una sola cellula embrionale un essere vivente, prelevarla, manipolarla o distruggerla significa infrangere un principio fondamentalmente religioso; la maggioranza della comunità scientifica, dal canto suo contesta il dogma dell'esistenza della vita allo stadio preembrionale e ritiene le ricerche sulla clonazione delle cellule embrionali non solo lecite da un punto di vista etico ma assolutamente indispensabili in quanto schgiuderebbero ka strada a percorsi terapeutici che potrebbero portare alla guarigione di innumerevoli ammalati oggi condannati ad una dolorosa quanto breve esistenza. Per quanto riguarda le prospettive a medio e lungo termine che le ricerche sulla clonazione umana comporterebbero il "fronte" cattolico paventa il fantasma della generalizzata mostruosa clonazione dell'essere umano; una prospettiva questa che, a parte qualche ospite fisso di sempre più diseducativi talk show televisivi, viene rigettata dalla totalità del mondo scientifico e accademico.
Se la prospettiva della clonazione di esseri umani (magari tutti biondi, con gli occhi azzurri, efficienti...) resta e continuerà a restare confinata nella fantascienza ben altro discorso riguarda la clonazione di animali e di vegetali.
La clonazione di animali geneticamente identici, resa famosa dalla nascita della pecora Dolly, sta diventando prassi in molti paesi e negli ultimi anni, alle tradizionali "destinazioni" di questi animali (sperimentazione biomedica e produzione di organi destinati a trapianti umani) si è passati alla clonazione di animali da compagnia (sono attualmente 20 le aziende statunitensi che garantiscono la "resurrezione" del cane o gatto morto a partire da alcune sue cellule) di animali a rischio estinzione e di animali da macellazione. A favore di quest’ultimo business, si è espressa, agli inizi di questo anno, l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) suscitando non poche proteste da parte di enti – quali, ad esempio la nostrana Coldiretti – e di gruppi ecologisti i quali hanno fatto notare come, la corsa verso specie di animali da macellazione sempre più produttivi non solo non risolve i problemi alimentari che continuano avvincere il pianeta (anzi, aumentare il consumo di carne a discapito delle colture vegetali determina sempre più gravi problemi ambientali e medici) ma finisce per azzerare la biodiversità. Una risorsa questa che ha permesso alla Natura di superare avversità (quali, ad esempio l’insorgere di micoorganismi patogeni o condizioni climatiche eccezionali) basandosi sulle innumerevoli "razze" che hanno finora marcato le specie sul nostro pianeta.
Ancora più gravido di rischi risulta essere la clonazione e commercializzazione di organismi vegetali geneticamente modificati.
Oltre a rischi ambientali, (quali la possibile trasmissione delle caratteristiche degli organismi geneticamente modificati ad altre specie ad esempio ad organismi patogeni) e medici (ad esempio, l’allergenicità o la tossicità già evidenziata in alcune coltivazioni OGM) vi sono poi devastanti effetti economici e politici. E oggi, mentre la "Fame nel Mondo", argomento che qualcuno riteneva archiviato per sempre, sta conquistandosi i titoli di testa dei giornali, ritengo utile riportare una dichiarazione che i delegati di 20 stati Africani, nel 1998 presentavano all’Assemblea delle Nazioni Unite. Una dichiarazione passata sotto silenzio dalla stragrande maggioranza dei media ma che ritenni così importante da riportare in una mia relazione ad un convegno.
"Siamo fortemente contrariati dal fatto che l’immagine della povertà e della fame dei nostri paesi sia usata come strumento da parte delle multinazionali per promuovere una tecnologia che non è sicura, ambientalmente compatibile né di alcuna utilità per noi. Non crediamo che queste multinazionali né l’ingegneria genetica aiuteranno i nostri agricoltori a produrre il cibo di cui c’è bisogno nel 21mo secolo. Al contrario, crediamo che questa tecnica distruggerà la diversità, la conoscenza locale e i sistemi agricoli sostenibili che i nostri agricoltori hanno sviluppato nel corso dei millenni, minacciando così la nostra capacità di alimentarci."
A livello planetario, la crisi dei territori rurali e delle popolazioni che vi abitano, non è solo il fattore che modifica profondamente il regime dei suoli e delle acque, ma è anche la causa della riduzione rapidissima delle nicchie ecologico-sociali in cui avevano trovato rifugio specie e varietà tradizionali; il loro germoplasma risulta vitale per qualsiasi strategia agraria che voglia mantenersi flessibile e capace di adattarsi alle rapide trasformazioni in atto nei singoli paesi e, più in generale, sulla Terra. In generale è assodato che l’aumento di produttività porta ad una diminuzione della sostenibilità. Occorre affrontare questa contraddizione cercando di aumentare la produttività degli ecosistemi agrari senza cambiarne le caratteristiche naturali o, almeno, ricreando quelle stesse caratteristiche negli ecosistemi modificati. Questo approccio esclude di per sé l’applicazione in agricoltura degli organismi geneticamente modificati.
I principali semi geneticamente ingegnerizzati vengono prodotti per i mercati del nord del mondo, mentre le sbandierate "soluzioni" per l’agricoltura del sud del mondo solo delle mere illusioni. I semi geneticamente modificati sono soltanto il risultato degli interessi di marketing delle multinazionali, non il risultato di ricerche elaborate sulla base dell’esperienza degli agricoltori. Le istituzioni del Sud hanno pochissimi strumenti - o addirittura nessuno - per fronteggiare i rischi altissimi associati all’utilizzo di organismi geneticamente modificati. Proprio i paesi con una situazione economica tale da non permettere né la minima valutazione preventiva dei rischi, né un corretto monitoraggio degli impatti si troverebbero nella condizione di dover sopportare i costi più alti. Perfino nelle nazioni altamente industrializzate come gli USA e l’Unione Europea i governi non sono stati in grado di prevenire l’inquinamento genetico.
Gli OGM non sono gratis. Le esperienze maturate attraverso l’agricoltura intensiva (la Rivoluzione Verde) sono la prova lampante di come le soluzioni tecnicistiche non hanno aiutato le popolazioni rurali povere a fuggire la fame e la malnutrizione. I semi geneticamente modificati hanno già un alto costo sociale che deriva dal rischio di utilizzo. A ciò si deve aggiungere il costo economico determinato dalla necessità per gli agricoltori di comperare nuove sementi ogni stagione di semina invece di utilizzare i semi dei raccolti precedenti. Se per gli ibridi sterili, che hanno caratterizzato la rivoluzione verde ciò era necessario per mantenere alto il livello di produttività, nel caso degli OGM ciò è necessario in quanto i semi rimangono di proprietà della multinazionale che ne detiene il brevetto. Gli OGM applicati in agricoltura, perciò, non faranno altro che peggiorare il panorama globale, in quanto proprietà esclusiva dei detentori dei brevetti.
E’ necessario orientare le conoscenze tecniche e le innovazioni tecnologiche per migliorare le potenzialità locali che difficilmente possono essere sfruttate al meglio dalla ricerca e dall’applicazione di soluzioni globali che siano adatte a qualsiasi contesto agroecologico. Sono stati investiti miliardi di dollari nella ricerca per il cibo geneticamente modificato, e molti altri dovranno essere spesi per renderlo disponibile a tutti. Sarebbe molto più conveniente, dal punto di vista economico, destinare questi finanziamenti per promuovere strategie esistenti, come ad esempio l’agricoltura sostenibile e in armonia con lo sviluppo locale."
Napoli maggio 2008
Giulio Tarro