Dalla relazione all' ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI :
PREMIO INTERNAZIONALE IQBAL MASIH, Napoli,11/9/03
Prof.
Giulio Tarro
Tutela
della salute nell’era della globalizzazione
Con
l’accelerare del processo di globalizzazione la dimensione internazionale
della salute ha assunto nuova rilevanza. Già nell’immediato dopoguerra
l’umanità aveva riconosciuto che, per costruire la pace e il progresso
comune, era necessario perseguire una maggiore giustizia tra i popoli e
realizzare i principi enunciati con solennità nella Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo, tra i quali il diritto alla salute. Nel definire la
salute come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» e non solo
«assenza di malattia», nell’atto costitutivo dell’Organizzazione mondiale
della sanità (OMS), i governi del mondo sottolineavano il pericolo comune
costituito dalle disuguaglianze in salute. Dunque, la salute non era e non
andava vista solo come un diritto umano fondamentale dell’individuo, ma come
un bene indivisibile: la salute di tutti e di ognuno come obiettivo da
perseguire a vantaggio dell’intera umanità. Dalla Conferenza dell’OMS di
Alma Ata (1978) in poi ci si è a lungo richiamati all’impegno sottoscritto da
tutti i governi del mondo per una «Salute per tutti entro il 2000», ponendo la
soddisfazione dei bisogni di base come strategia prioritaria per raggiungerlo.
Sul
finire dello scorso millennio, quell’obiettivo è stato, comunque, modificato
in «Salute per tutti nel XXI secolo», riconoscendo che il cammino verso una
maggiore giustizia e verso una globalizzazione dei diritti si è rallentato,
forse interrotto. La situazione, del resto, è sotto gli occhi di tutti. Oggi
nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo (dove ci sono 59 medici su 100.000
abitanti) ogni anno 4 milioni di persone muoiono per infezioni respiratorie che
nei paesi occidentali (dove ci sono 252 medici su 100.000 abitanti) vengono
affrontate e positivamente risolte; 2,2, milioni muoiono per malattie
diarroiche; 1,7 milioni muoiono per tubercolosi; 1 milione muore per malaria.
Del resto, solo lo 0,8% del Pil è mediamente destinato alla sanità nei paesi
poveri (dove la speranza di vita alla nascita scenderà mediamente secondo le
previsioni dell’OMS nel 2005 da 47 a 42 anni) contro il 5% dei paesi ad alto
reddito mentre più del 75% della popolazione mondiale ha a disposizione il 15%
dei farmaci prodotti.
Le
sconsolanti statistiche sulle disuguaglianze in salute che continuano ad
approfondirsi nonostante abbiano già raggiunto un’ampiezza mai vista prima,
potrebbero protrarsi per pagine e pagine, ma forse è meglio soffermarsi sul
perché di questa situazione. Secondo autorevoli studiosi un ruolo negativo lo
hanno avuto le istituzioni finanziarie internazionali, primi fra tutti la Banca
mondiale e il Fondo monetario internazionale, sostituitesi di fatto
all’Organizzazione mondiale della sanità nel guidare la politica sanitaria
globale. Negli anni novanta tali istituzioni hanno, infatti, indicato - e spesso
imposto - linee di politica sanitaria che considerano la salute una variabile
dipendente della crescita economica. Nei paesi poveri i crediti, quindi, sono
stati condizionati all’applicazione di piani di aggiustamento strutturale che
prevedevano la liberalizzazione del commercio, il taglio della spesa sociale e
la privatizzazione dei servizi; il risultato è stato spesso lo smantellamento
dei sistemi sanitari. A tal riguardo è da segnalare che, mentre in quasi tutti
i Paesi Industrializzati i sistemi socio-sanitari sono prevalentemente pubblici,
nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” o del Terzo Mondo avviene l'esatto
contrario: prevale il privato con poche eccezioni, al di fuori dei paesi ad
economia pianificata (Cina, Cuba, Vietnam, Nord Korea.).
Per
appurare gli effetti di questa situazione sulla salute delle popolazioni, la
rivista scientifica <<The Lancet>> ha pubblicato i risultati di una
ricerca sulla mortalità infantile in relazione al PIL procapite e alla
distribuzione del reddito in molti Paesi del Terzo Mondo dal titolo "National
IMR (Infant Mortality Rates) in relation to gross national product and
distribution income", che giungeva alla conclusione che "lo stato
di salute di una popolazione dipende dalla distribuzione del reddito più che
dal livello assoluto del reddito nazionale procapite". Una considerazione
questa che delinea una condanna senza appello se si considera che, dopo venti
anni di globalizzazione dell'economia, i divari di reddito tra paesi ricchi e
paesi poveri sono aumentati. Oggi, infatti, il reddito pro-capite del 20% di
popolazione più ricca del pianeta (dagli USA alla Svizzera, Italia inclusa), è
74 volte più grande del reddito medio del 20% di popolazione più povera (dall'Afganistan
allo Zambia), mentre nel 1990 era di 60 ad 1 e nel 1960 di 30 ad 1.
Un
aspetto particolarmente grave della progressiva esclusione dei poveri dalle cure
mediche è dato dall’accesso ai farmaci. Le statistiche mondiali delineano a
tal proposito un quadro sconfortante: il 75% della popolazione ha a disposizione
solo il 15% dei farmaci (l’intero continente africano solo l’1%) in
commercio, contro il 42% del solo Nord-America. Nelle aree più povere del
pianeta oltre il 50% della popolazione non ha accesso neppure ai farmaci
definiti “essenziali”, siano essi generici o brevettati.
Il
concetto di accesso ai farmaci, nella definizione dell’OMS, è ampio e
comprende anche la ricerca, l’elaborazione di linee guida, l’addestramento
di personale medico specializzato, la predisposizione di prezzi accessibili etc.
A livello di Organizzazione Mondiale del Commercio, un peso importante in
materia di accesso ai farmaci è ricoperto dagli accordi Trips: nel quadro di
questi accordi sui brevetti è prevista la possibilità di produrre medicinali
sotto brevetto in presenza di condizioni socio-sanitarie eccezionali. Si tratta
della concessione della licenza obbligatoria che permette ad un paese di
produrre localmente un farmaco ancora sotto brevetto senza l’autorizzazione
del proprietario.
Vi
sono, comunque spietati meccanismi economici che inficiano le direttive degli
accordi Trips.
Ad
esempio la produzione dei cosiddetti farmaci “abbandonati”, cioè che non
vengono più prodotti per scarso profitto, mentre le malattie che potrebbero
curare mietono migliaia di vittime. A tal riguardo il Global Forum for Health
Research rivela che solo il 10% degli investimenti pubblici e privati è
destinato ai problemi sanitari nei paesi poveri e solo il 2% degli investimenti
in ricerca e sviluppo nel mondo è destinato a debellare famacologicamente
malattie estesamente presenti nel Terzo Mondo quali infezioni respiratorie
acute, malattie diarroiche e Tbc. Nasce da qui il davvero imponente mercato dei
medicinali contraffatti e cioè prodotti disinvoltamente da ditte locali non
pagando i brevetti alla “Big Pharma” (e cioè il cartello delle dieci
principali multinazionali farmaceutiche) che li ha inventati. A tale riguardo
l’OMS ha calcolato che oltre il 10% dei farmaci in Africa siano falsi. In
tutto questo, le case farmaceutiche svolgono un ruolo determinante. Esse si
dichiarano disposte ad allargare l’elenco dei farmaci essenziali nei Paesi in
Via di Sviluppo, a patto che si attui una politica dei brevetti trasparente. Nel
tentativo di garantire l’accesso ai farmaci per tutti, una soluzione
imprescindibile sembra essere la predisposizione di una legislazione
internazionale che, in virtù dell’”eccezione sanitaria” e della
condivisione di responsabilità tra i soggetti interessati, favorisca
l’applicazione di prezzi differenziati, a seconda del potere d’acquisto dei
paesi in cui i farmaci sono venduti e che miri al trasferimento di tecnologie in
loco per la produzione di farmaci, in nome di uno sviluppo sostenibile.
Ma
questa tendenza “umanitaria” in auge (a parole) fino a qualche anno fa
sembrerebbe essere archiviata e la stessa OMS è stata recentemente accusata di
sposare unicamente le cause delle multinazionali farmaceutiche. Hanno destato
scandalo, ad esempio, le dichiarazioni di Gro Harlem Brundtland, direttrice
generale dell’OMS che al Forum economico mondiale di Davos, il 29 gennaio
2002, così si è espressa: «Dobbiamo proteggere i diritti dei brevetti (...)
per garantire che ricerca e sviluppo ci forniscano nuovi strumenti e tecnologie
(...). Abbiamo bisogno di meccanismi che impediscano di riesportare medicinali a
basso costo verso economie più ricche. (…) L'industria ha compiuto uno sforzo
ammirevole per far fronte ai suoi compiti, con doni di medicinali e riduzioni di
prezzo». Uno “sforzo” , è stato fatto notare, tanto più meritorio, in
quanto è stato portato avanti malgrado “la preoccupazione, da parte delle
industrie farmaceutiche, che il fissare prezzi più bassi per i medicinali
destinati ai paesi in via di sviluppo, potesse costituire un precedente nei
negoziati con paesi che, invece, hanno i mezzi per acquistarli”; un
“brevetto di moralità” concesso alle multinazionali... giusto cinque
settimane prima che si aprisse, a Pretoria, il processo intentato da una
quarantina di loro contro il governo sudafricano, colpevole di preparare
l'importazione di medicinali generici da altri paesi in via di sviluppo.
Già
il 13 maggio 1998, del resto, all'inizio del suo mandato, la Brundtland aveva
enunciato i principi della sua strategia alla 51a Assemblea mondiale della sanità
(che raggruppa gli stati membri dell'OMS): «Dobbiamo aprirci agli altri».
Quali «altri»? Fondamentalmente al settore privato, al quale era stato
proposto un partenariato, e alle principali organizzazioni multilaterali: Banca
mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del
commercio (Wto).
Questo
per molti commentatori significa sottomettersi ai desiderata di Washington. Del
resto le parole della Brundtland non si prestano a molti equivoci: «Abbiamo
assolutamente bisogno dei finanziamenti privati. Da dieci anni, infatti, i
governi non ci danno più molti soldi; le maggiori risorse ci vengono dal
settore privato e dai mercati finanziari. Poiché l'economia americana è la più
ricca del mondo, dobbiamo trasformare l'OMS in un sistema capace di sedurre gli
Stati uniti e i mercati finanziari». Anche se presentata come la constatazione
di una necessità, la perorazione che tende a sottomettere l'OMS ai desiderata
di Washington e delle istituzioni della globalizzazione liberista, e fa appello
alla carità dei grandi gruppi, è in realtà puramente ideologica in quanto
l'apporto privato rappresenta solo una piccola parte delle risorse dell'OMS.
Questo
processo di progressiva globalizzazione della salute e, quindi di adeguamento
delle direttive dell’OMS a quelle del WTO e della Banca Mondiale, è comunque
mitigato da alcune tendenze. Ad esempio, durante la conferenza ministeriale
della Wto, tenutasi il 13 novembre 2002 a Doha (Qatar), i paesi in via di
sviluppo che dispongono di un'industria farmaceutica hanno finalmente ottenuto
il diritto di produrre copie meno costose di medicinali protetti da brevetti -
anche se solo in caso di crisi della sanità pubblica e senza aver il diritto,
per ora, di riesportarli verso paesi poveri incapaci di produrli. Tuttavia,
questa relativa vittoria non deve niente alla direzione dell'OMS, anche se va
riconosciuto il comportamento coraggioso di alcuni suoi rappresentanti. È
invece il risultato delle pressioni esercitate dalle opinioni pubbliche,
allertate dalle organizzazioni non governative (Ong) e, soprattutto, di un
clamoroso voltafaccia americano. Dopo gli attentati dell'11 settembre, infatti,
gli Stati uniti hanno minacciato la Bayer, l'industria tedesca produttrice
dell'antibiotico Cipro, utilizzato per combattere il carbonchio, di prodursi da
soli copie conformi del farmaco, se non gli fosse stata consentita una
sostanziale riduzione dei prezzi. Una volta riuscito il ricatto, è diventato
difficile per loro opporsi al fatto che anche altri stati affermino il primato
del diritto alla salute sul diritto del brevetto.
Un
altro aspetto che scandisce il rapporto tra globalizzazione e salute è lo
stravolgimento dell’ecosistema microbico e cioè il rapporto tra
globalizzazione e ascesa di nuove malattie
La
critica di fondo al "ruolo globalizzatore" svolto dall’homo
tecnologicus, definitiva e perfezionata variante occidentale dell’homo faber,
è quella di essere sì riuscito a unificare il pianeta, ma con finalità di
dominio, mediante la progressiva imposizione al resto dell’umanità di un
unico modello e sistema economico-politico-culturale enormemente vantaggioso per
chi lo gestisce, ma estremamente gravoso per chi lo subisce e soprattutto
potenzialmente distruttivo per il pianeta e che rischia di determinare
conseguenze gravi sull’ecosistema microbico, formatosi lentamente, nel giro di
quasi 4 miliardi di anni e che rischia di essere stravolto definitivamente nei
prossimi decenni. Un pericolo determinato dalle attuali strategie di lotta alle
malattie infettive, basate quasi sempre non già sul risanamento delle
condizioni ambientali e sociali nei quali molte di queste malattie allignano, ma
sull’uso scriteriato di antibiotici (soprattutto nei grandi allevamenti
animali) che favoriscono il selezionarsi di microrganismi sempre più resistenti
e, in ultima analisi, invulnerabili. Si parla molto del cosiddetto buco
dell’ozono. Ma del buco, potenzialmente altrettanto pericoloso che l’uso
scriteriato e la diffusione nell’ambiente di antibiotici sta producendo
nell’ecosistema microbico, si parla pochissimo. Eppure è difficile negare che
la distruzione di batteri non patogeni e l’accelerata selezione di nuove
specie microbiche conseguente all’uso scriteriato di antibiotici spalanca le
porte alla proliferazione di microrganismi patogeni sempre nuovi e a patologie
sempre più gravi. Ma il pericoloso processo di modificazione delle specie
viventi imposto dalla globalizzazione raggiunge il suo apice nella manipolazione
del DNA che rischia da un momento all’altro di immettere nell’ecosistema
organismi la cui iterazione con l’ambiente potrebbe avere conseguenze
catastrofiche. A questo sono da aggiungere le colossali modifiche ambientali, e
quindi sanitarie, imposte negli ultimi anni dalla globalizzazione. Distruzione
di foreste ed ecosistemi, costruzione di dighe e bacini idrici l’espandersi di
megalopoli prive di adeguati sistemi sanitari, l’enorme incremento degli
scambi (ogni giorno 1,5 milioni di passeggeri viaggiano da un continente
all’altro) e quindi di germi rischiano di determinare nuovi bacini microbici e
nuove condizioni di contagio.
Un
quadro desolante, quindi. Ma mi sia consentito concludere questa mia breve
relazione con una notiziola confortante.
La
storia nasce nel 2001 quando la multinazionale farmaceutica Pfizer decise di
commercializzare un farmaco contro l'obesità basato sugli estratti di un
cactus, lo Hoodia, da millenni utilizzata dalla tribù dei San, che popola le
savane del Sud Africa, perché inibisce lo stimolo della fame.
A
questo punto due gruppi ecologisti, Azione Aiuto e Bio Watch, hanno denunciato
il «furto di conoscenza» alla popolazione San e hanno sottoposto il caso,
definito un atto di «bio pirateria», alle Nazioni unite, al Wto e ai media
internazionali. La scoperta delle proprietà «dimagranti» del cactus Hoodia è
infatti senza ombra di dubbio dei San, che da 27mila anni vivono nella regione
del Sud Africa. Lo loro medicina tradizionale ha studiato per anni gli effetti
inibenti dello stelo di Hoodia sullo stimolo della fame, ricavandone un
preparato che i San usano per affrontare le lunghe marce a piedi nel deserto. E'
stato solo di recente che alcuni ricercatori sono venuti a conoscenza della
proprietà della pianta studiando proprio la medicina tradizionale San.
Appena
fatta la scoperta però, il Comitato per la ricerca scientifica ed industriale
del Sud Africa ha identificato il principio attivo dell'Hoodia e l'ha venduto
alla Phytopharm, che lo ha brevettato come «P57». Ottenuto il brevetto
Phytopharm ha annunciato di aver trovato una cura potenziale per l'obesità
priva di effetti collaterali, perché basata su un principio attivo naturale.
L'effetto dell'annuncio è stata un'impennata nel valore delle azioni di
Phytopharm, che poi ha venduto alla Pfizer, per 21 milioni di dollari, la
licenza mondiale esclusiva per la commercializzazione del P57. Il tutto senza
riconoscere alcun diritto ai San. Ma ora, dopo due anni di contenzioso, la
multinazionale ha dovuto riconoscere il diritto dei San sulle loro conoscenze
tradizionali. L'accordo raggiunto prevede che Pfizer riconosca ai San il diritto
all'istruzione e al lavoro, nonché 6 milioni di dollari l'anno se il nuovo
farmaco avrà successo.
E
almeno questa storia è finita bene.