PREFAZIONE
Alla prassi amministrativa, che lo vede impegnato come vivace Sindaco di Acerra, il Dott. Michelangelo Riemma in questo saggio sulla figura di Hannah Arendt, filosofa della politica, unisce la "passione intellettuale" per l'arte politica: coniugare insieme l'esperienza sul campo con la riflessione teoretica, è un percorso formativo da consigliare a molti aspiranti e improvvisati "politici". Il problema etico - politico è al centro dell'itinerario di Hannah Arendt (1906-1975), la cui formazione si svolge sotto il magistero di Heidegger, Husserl e Jasserl e Jaspers, nel 1928 con la quale si laurea nel 1928 "il concetto di amore in Agostino". Già attiva nel movimento sionistico prima del 1933, in quell'anno si rifugia in Francia per evitare la persecuzione nazista contro gli Ebrei e, di là, riesce a fuggire negli Stati Uniti, dove insegna Teoria Politica. La fama pubblica di questa pensatrice atipica è soprattutto legata alle polemiche che hanno accompagnato il suo scritto "La banalità del male" (1963), dedicato al caso Eichmann, e alle prese di posizione della Arendt nei confronti del movimento sionistico, dal quale si dissociò accusandolo sia di indebito nazionalismo, sia di non aver inteso la natura specifica dell'antisemitismo contemporaneo e la novità storica dell'Olocausto, legato ai destini totalitaristici della società politica contemporanea. Di qui la pecularietà esemplare della condizione dell'ebreo moderno, diviso tra aspirazione all'integrazione sociale e fuga nell'interiorità, che è a sua volta un esito della elisione della sfera pubblica nel mondo moderno. Esemplare è al riguardo il secondo libro della Arendt, dedicato alla biografia di una colta ebrea berlinese Rachel Vamhagen, dove l'autrice rivendica la sua natura ebraica, costitutivamente caratterizzata dalla condizione della diversità, dell'esilio, dell'emarginazione. Ma a ciò si lega il tema principale della sua ricerca filosofico -politica, che ha trovato maggiore ascolto negli Stati Uniti ed Europa. Il concetto sul quale ha più profondamente lavorato la Arendt è quello della "Azione" intesa come "quell'essere con gli altri" che definisce la natura profonda dell'essere umano. Ricordiamo brevemente la sua tripartizione della Vita Attiva nelle tre modalità:
1) La prima è la modalità del lavoro, rispettivamente il processo di produzione e consumo; è il campo della necessità, del privato, della produzione, riproduzione e consumo dell'animal laborans'.
2) La seconda è la fabbricazione di manufatti e opere d'arte che arreda il mondo fra gli uomini: è il campo del semi-privato, dell'homo faber.
3)La terza è quella tipicamente umana, sfera pubblica e della libertà: sono il gesto e il discorso che rivelano il "chi è" la singolarità all'interno dell'insopprimibile pluralità umana. "Agendo e parlando, scrive la Arendt, gli uomini mostrano chi sono, rivelando attivamente l'unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel campo umano". Il mondo umano è caratterizzato dalla sfera pubblica, tematizzato nella sua opera "Vita activa". Nell'agire comunitario l'uomo mostra agli altri "chi è" e non soltanto "che cosa è". D'altra parte questo rivelarsi nella vita pubblica comporta anche un celarsi nel segreto della vita privata, sicché la trasparenza comunicativa è sempre parziale. Con queste suggestive analisi la Arendt intendeva tra l'altro assumere un atteggiamento critico nei confronti degli intellettuali contemporanei, e in particolare dei filosofi, chiusi nelle loro astrazioni teorecistiche e incapaci di una effettiva vita pubblica, nonché di sincerità autentica nella vita privata.
Ma il tema dell'azione intende soprattutto denunciare l'alienazione della vita politica moderna, critica che si era messa in moto sin dal libro del 1957 "Le origini del totalitarismo" dove la Arendt individua nella progressiva spoliticizzazione della vita pubblica, ridotta a "burocrazia' e "pratica amministrativa" la radice di drammi contemporanei, culminati nelle due guerre mondiali, nell'ascesa delle dittature, nell'imperialismo, nell'antisemitismo e infine nella degenerazione demagogica e formalistica delle democrazie occidentali. "il totalitarismo" è la distinzione sistematica dello spazio pubblico per l'agire e il discorso. Il primato spetta all'agire perché esso solo, tra tutte le facoltà, presuppone la pluralità degli uomini, che rispondono o si oppongono all'atto. Questa spoliticizzazione è messa a fuoco in Via Activa attraverso il confronto con il modello ideale della democrazia ateniese al tempo di Pericle. Esso definisce uno spazio politico nel quale l'agire non è astrattamente sottomesso alla teoria, ma si esprime in una partecipazione diretta che rende possibile, pur nelle differenze sociali, tra i cittadini, una concreta eguaglianza politica. Tutto ciò viene meno con l'età moderna, in cui la mente e il corpo, la scienza e l’azione fanno cartesianamente divorzio. La politica viene allora espropriata nella gestione istituzionale e nella amministrazione burocratica, dove pochi decidono per molti, sino alla sua totale alienazione nella società di massa, di cui le grandi dittature nazista e stalinista sono la conseguenza. Nel mondo greco la vita pubblica è caratterizzata dalla ricerca umana della Virtù (Aretè), si svolge al cospetto di un mondo naturale eterno e immutabile e si tramanda nei racconti, dando luogo all’immortalità della fama. Nel mondo moderno la storia viene, invece, concepita come processo di trasformazione che coinvolge la stessa natura e che dà luogo all'idea di progresso. Dalla Comunità umana la verità passa ad un "soggetto" svincolato dal mondo nella sua astratta autonomia pensante. Per la Arendt si tratta di ritornare ad un agire che restituisce il pensiero al mondo e liberi la cultura della sua alienazione teoretica in cui vivino artisti e filosofi, separati dalla vita attiva e concreta dell'esistenza. La crisi contemporanea ha il suo fondamento non nel lavoro né nella creatività spirituale, ma è politica e si radica nella mancata integrazione dell'azione dei singoli in un agire comunitario concreto. Anche come cristiani, pur non assolutizzando la politica, non possiamo non convenire su una sempre maggiore marginalizzazione di un'autentica azione politica. Il progressivo sviluppo della società e il tumultuoso svilupparsi delle soggettività nel campo privato e pubblico hanno portato a coltivare più l'interesse immediato dei particolarismi che il Bene Comune,con una conseguente gestione riduttiva della politica. Si è progressivamente realizzata una privatizzazione del pubblico, e lo Stato è divenuto sempre più debole, con un insorgente neo-feudalesimo in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi: inceneritore docet. Le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni, sono spesso il frutto di una contrattazione con quelle parti sociali più forti che hanno il potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, dove esercitano il loro potere ricattatorio. Per questo corretto svolgimento della vita sociale è indispensabile che la comunità civile si riappropri di quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai "professionisti" di questo impegno nella società: si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi assumendo la responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo declamata partecipazione.
Mons. Giovanni Rinaldi
Vescovadi Acerra