GIULIO TARRO
Aspetti generali di bioetica applicati nel campo delle
donazioni
Relazione
al III Corso di Formazione per quadri dirigenti Fratres
Lo sviluppo della donazione di sangue, di emocomponenti, di midollo osseo
e loro aspetti generali di bioetica
Consiglio
Regionale della Toscana, Firenze 20 novembre 1995
Nel nostro paese, le posizioni dell’opinione pubblica riguardo alle
questioni etiche sollevate dai trapianti di organi e di tessuti conoscono picchi
di opposte fasi alterne sulla scia di notizie, spesso inesatte, riportate dai
mass media. Per citare gli episodi più recenti, fanno testo presunti
“sondaggi” frettolosamente realizzati nel corso di trasmissioni televisive
imperniate sul “caso” della ragazza inglese, in coma apparentemente
irreversibile e quindi destinata ad essere espiantata di alcuni suoi organi,
inspiegabilmente “resuscitata” o sul “caso” opposto del bambino
siciliano morto dopo una straziante e inutile attesa di un cuore da impiantare.
Di certo le questioni morali, filosofiche, sociali, e quindi di bioetica, legate
al campo dei trapianti d'organi e tessuti sono talmente tante e complesse che
non è ancora possibile stabilire una normativa da imporre a tutti in maniera
soddisfacente. E, certamente, al di là di pur importanti leggi (come il decreto
applicativo della legge del 29/12/1993 che stabilisce i criteri per accertare la
morte in un soggetto) sussistono questioni che devono essere conosciute e
discusse per diventare un importante momento di riflessione sul valore della
vita, sul ruolo della Medicina, sul rapporto tra individuo e società.
La bioetica
Una riflessione sul concetto di “bioetica” necessita di un breve
approfondimento sul termine di etica intesa come scienza che ha come oggetto i
valori comunque riferiti al volere e all'azione dell'Uomo. Com'è noto, esiste
una differenziazione tra etica intesa come disciplina descrittiva, (che si
sofferma cioè a descrivere il comportamento dell'Uomo e ad aiutarlo a cogliere
tra i moventi che determinano la sua azione quelli la cui realizzazione presenta
individualmente e socialmente i maggiori vantaggi) e un'etica normativa, che
presenta all'Uomo un compito, un fine, un ideale da realizzare con uno sforzo
positivo, rimuovendo gli ostacoli che società, cultura e tradizione oppongono.
Una tale problematica non poteva non intrecciare feconde riflessioni con la
Medicina.
Nel mondo occidentale, sin dalla tradizione di Ippocrate di Kos, il
rapporto tra medico e malato è stato sublimato nel dovere del medico di fare il
bene al paziente e nel dovere di quest’ultimo di accettarlo. In tale visione
etica il medico è una sorta di sacerdote che agisce da mediatore con la divinità
ripristinando l'ordine della natura sconvolto dalla patologia e forte del
giuramento prestato alla divinità, che lo lega in modo indissolubile all'arte
medica, assume una responsabilità forte, di tipo morale, diversa da quella
debole, di tipo giuridico, legata a contratti tra persone che, comunque, possono
essere sciolti con il semplice accordo delle parti. Questo millenario rapporto
tra medico e paziente, basato su un rapporto diretto, non mutuato cioè da
leggi, ha conosciuto una irrimediabile frattura soprattutto negli ultimi decenni
con l’avanzare impetuoso della ricerca biomedica. E il medico, oggi più di
sempre si ritrova di fronte ad antichi dilemmi, che riguardano come conciliare
il rispetto dell'individuo, la sua volontà e la specificità del genere umano
con le possibilità offerte dalla tecnologia.
Ma, oggi più che mai, la
medicina deve conciliare scienza e utilizzazione razionale e complessiva della
tecnologia con la consapevolezza che l’Uomo, è qualcosa di diverso dalle sue
parti. Per questo, oggi la ricerca
biomedica necessita di un approfondimento sul metodo della conoscenza,
sull'elaborazione del sapere e sui valori etici che ne devono guidare le scelte.
Nasce da qui l’esigenza di trovare un bilanciamento di valori, tra uno
sperimentalismo sottoposto alla pressione della tecnologia, ma comunque
funzionale al progresso della medicina, e la necessita' di tutelare il malato e
l'umanità. Tra una medicina scientifico-tecnologica e una medicina
antropologica. Nasce da qui quel dibattito etico relativo alla ricerca biomedica
che non può non toccare direttamente i grandi temi della vita e della morte,
quelli dell'identità psicofisica dell'Uomo e dell'umanità.
Il cammino della bioetica
Il termine bioetica è stato coniato dall'oncologo Van R. Potter nel
1971, per sottolineare la relazione esistente tra le nuove conoscenze biologiche
e i valori etici dell'Uomo. L’interesse di Van R. Potter per queste tematiche
scaturiva da una riflessione sull’inopportunità di un accanimento terapeutico
su malati in fase terminale ai quali, forse, sarebbe stato più opportuno
accelerare la fine risparmiando così ad essi un inenarrabile calvario di
sofferenze e umiliazioni ma ben presto il termine “bioetica” travalicò
questo stretto ambito per interessare questioni che fino a quel momento il
medico aveva vissuto come sofferta scelta personale quale l’aborto o il
mantenimento in “vita” di persone che hanno perso le funzioni sensitive e
razionali conservando solo quelle vegetative, fino ad interessare questioni che
i progressi della Medicina hanno portato alla ribalta quali la fecondazione
artificiale, l’ingegneria genetica e i trapianti.
Nel nostro continente le tematiche legate alla bioetica ebbero un primo
momento di codifica nel documento istitutivo del Consiglio d'Europa, che nella
sua raccomandazione del 2 febbraio 1989 invitava i Governi degli Stati membri a
istituire "istanze nazionali
interdisciplinari, incaricate di informare la collettività ed i pubblici poteri
dei progressi scientifici e tecnici compiuti in embriologia, nella ricerca e
sperimentazione biologica, valutarne i risultati, i vantaggi e gli inconvenienti
anche sotto il profilo dei diritti e della dignità dell'Uomo e degli altri
valori morali". In accordo con questa raccomandazione, in Italia la
Presidenza del Consiglio dei ministri istituiva, con decreto del 28 marzo 1990,
il Comitato Nazionale per la Bioetica, (del quale faccio parte) le cui funzioni
sono elencate nell'articolo 1 dell'atto costitutivo e cioè: “Elaborare un quadro riassuntivo dei programmi, obiettivi e risultati
della ricerca e della sperimentazione nel campo della scienza, della vita e
della salute dell'Uomo; formulare pareri e indicare soluzioni per affrontare i
problemi di natura etica e giuridica che possono emergere con il progredire
delle ricerche, avuto riguardo alla salvaguardia dei diritti fondamentali e
della dignità dell'Uomo, cosi' come sono espressi nella Carta Costituzionale;
prospettare soluzioni per le funzioni di controllo rivolte sia alla tutela della
sicurezza dell'Uomo sia alla protezione da eventuali rischi dei pazienti
trattati con prodotti dell'ingegneria genetica o sottoposti a terapia genetica.”
Il Comitato Nazionale di Bioetica ha finora pubblicato una serie di
documenti ufficiali:
1 -DEFINIZIONE E ACCERTAMENTO DELLA MORTE NELL'UOMO (15 Febbraio 1991)
2 -TERAPIA GENICA (15 Febbraio 1991)
3 -PROBLEMI DELLA RACCOLTA E TRATTAMENTO DEL LIQUIDO SEMINALE UMANO PER
FINALITÀ' DIAGNOSTICHE (5 Maggio 1991)
4 -DOCUMENTO SULLA SICUREZZA DELLE BIOTECNOLOGIE (28 Maggio 1991)
5 -PARERE DEL C.N.B. SULLA PROPOSTA DI RISOLUZIONE SULL'ASSISTENZA AI
PAZIENTI TERMINALI (6 Settembre 1991)
6 -BIOETICA E FORMAZIONE NEL SISTEMA SANITARIO (7 Settembre 1991)
7 -DONAZIONI D'ORGANO A FINI DI TRAPIANTO (7 Ottobre 1991)
8 -I COMITATI ETICI (27 Febbraio 1992)
9 -DIAGNOSI PRENATALI (18 Luglio 1992)
10 -LA LEGISLAZIONE STRANIERA SULLA PROCREAZIONE ASSISTITA (18 Luglio
1992)
11 -RAPPORTO AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUI PRIMI DUE ANNI DI ATTIVITÀ'
DEL C.N.B. (18 Luglio 1992)
12 -LA SPERIMENTAZIONE DEI FARMACI (17 Novembre 1992)
13 -INFORMAZIONE E CONSENSO ALL'ATTO MEDICO (20 Giugno 1992)
14 -RAPPORTO SULLA BREVETTABILITÀ' DEGLI ORGANISMI VIVENTI (19 Novembre
1993)
15 -TRAPIANTI DI ORGANI NELL'INFANZIA (21 Gennaio 1994)
16 -BIOETICA CON L'INFANZIA (22 Gennaio 1994)
17 -PROGETTO GENOMA UMANO (18 Marzo 1994)
18 -PARERE DEL C.N.B. SULLE TECNICHE DI PROCREAZIONE ASSISTITA: SINTESI E
CONCLUSIONI (17 Giugno 1994)
Parallelamente a questo Comitato si sono strutturate nel nostro Paese
numerose iniziative, tra queste un posto di rilievo spetta certamente a quelle
portate avanti dall’Istituto di Bioetica istituito nel 1992 presso la Facoltà
di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli" dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore di Roma e dal Corso di perfezionamento in Bioetica istituito nel
1994 presso il Dipartimento di Biologia animale e dell’Uomo dell’Università
“La Sapienza” di Roma.
La riflessione sistematica sulle questioni etiche
sollevate dalla sperimentazione clinica si è sviluppata, nel corso degli ultimi
decenni, attraverso una serie di tappe: presente già come esigenza
epistemologica al di dentro del metodo sperimentale, è andata ampliandosi a
seguito del verificarsi di situazioni di abuso e dell'emergere di una cultura
relativa ai diritti dell'Uomo. Infatti, pur avendo la sperimentazione clinica un
valore in sé, essa è giustificata solo se rispetta l'interesse, la salute e la
vita dei soggetti coinvolti nei trial. E' questa necessità che ha motivato la
messa a punto anche di una serie di documenti sia a livello nazionale che
internazionale: dalla nota e più volte rivisitata Dichiarazione di Helsinki
alla più recente Direttiva CEE 91/507 che ha come allegato le cosiddette Good
Clinical Practice for Trials on Medicinal Products in the European Community,
recepite dall'Italia attraverso un decreto del Ministero della Sanità (n.86 del
27.4.1992). Il 2 febbraio 1995 l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa,
dopo otto anni di lavoro, ha approvato la "Convenzione
sul rispetto dei diritti umani nell'applicazione della biologia e della medicina".
Si tratta di un primo importante passo avanti nella ricerca di una normativa che
regoli i limiti etici dell'ingegneria genetica e in generale nella
sperimentazione avanzata in medicina e biologia. Il controverso documento di
bioetica, emerso a Strasburgo, dovrà ora essere adottato in forma definitiva
dal Comitato dei ministri dei 33 Stati e poi firmato dai paesi membri. Un
emendamento concordato ha cancellato una disposizione del testo originario che
autorizzava le ricerche su embrioni umani in vitro non sviluppati oltre 14
giorni, stabilendo invece il divieto alla "costituzione
di embrioni umani per il solo scopo della ricerca" e prevedendo
disposizioni più specifiche sull'eventuale impiego di embrioni umani nella
ricerca biogenetica da definire in un futuro documento aggiuntivo.
La
mappatura del genoma
L’ingegneria genetica, cominciata nel 1953 con la
scoperta della doppia elica del DNA da parte di James D. Watson e Francis Crick,
ha conosciuto in pochi decenni un tumultuoso sviluppo: nel 1961 Francois Jacob e
Jacques Monod scoprono la funzione dell'RNA messaggero, la molecola che, come
uno stampo, copia dal DNA l'informazione genetica e consente alla cellula di
fabbricare le proteine, i "mattoni" dell'organismo; nel 1973 viene
messa a punto la tecnica del DNA ricombinante che consente di inserire dei
frammenti di DNA nel patrimonio genetico di un batterio o di un animale
superiore, convertendolo in una "fabbrica" di prodotti chimici, di
ormoni, di farmaci ecc.; nel 1977 è avviata la produzione di ormoni umani
sfruttando dei batteri modificati con la tecnica del DNA ricombinante; nel 1978
è clonato il gene umano dell'insulina; nel 1987 viene prodotto il primo
pomodoro geneticamente modificato, resistente ai parassiti; nel 1988 è
brevettato per la prima volta un topo, privo di sistema immunitario; nel 1990 è
effettuato il primo intervento di ingegneria genetica per curare un bambino
affetto da una malattia caratterizzata da un'immunodeficienza ereditaria. Ogni
settimana, ormai, sono decine gli organismi che vengono inventati, brevettati,
commercializzati e delegati ai più svariati compiti. Da non poche parti è
stata sottolineata l’intrinseca pericolosità dell’ingegneria genetica.
Basti ad pensare ad un microbo “artificiale” l’Acinobacter
calcoaceticus, che si ciba di idrocarburi, impiegato per dissolvere le
chiazze di petrolio disperse in mare; cosa succederebbe, infatti, se questo
nuovo germe finisse (magari trasportato da qualche terrorista) in un giacimento
petrolifero? Un altro nuovo microbo, lo Pseudomonas
syringae, viene disseminato sulle fragole per renderle invulnerabili al
freddo; ma cosa succederebbe se questa capacità si trasmettesse anche agli
insetti?
Eppure questi rischi sembrano ben poca cosa rispetto
alle possibili conseguenze del "Progetto Genoma Umano" che ha, finora,
consentito di identificare circa un decimo dei 100.000 geni che costituiscono il
nostro patrimonio ereditario mentre è quasi certo che alla fine di questo
millennio si avranno cognizioni tali che tutte le circa cinquemila malattie
genetiche conosciute saranno identificabili facilmente con test di laboratorio
relativamente semplici. La stessa identificazione dei geni, che caratterizzano
la nostra individualità sta, sempre di più diventando una realtà e potrà
consentire, in un non lontano futuro, di tracciare una sorta di identikit degli
aspetti più intimi della personalità.
Finora le rudimentali ricerche diagnostiche avevano
posto problemi etici sostanzialmente nel caso dell’individuazione di gravi
tare genetiche nell’organismo, (ad esempio, la sindrome di Down) di un
nascituro, con la conseguente ipotesi di aborto terapeutico: una drammatica
decisione che spettava unicamente ai genitori, senza l'interferenza di alcuna
autorità se non quella delle loro convinzioni morali. Più complesse sono le
implicazioni etiche quando vengono accertate predisposizioni genetiche verso
altri morbi quali, ad esempio la corea di Huntington, i cui sintomi compaiono
intorno ai quarant'anni: nulla esclude, infatti, che tra quarant’anni questa
malattia possa essere facilmente curata. Stesso discorso potrebbe essere fatto
per i geni favorenti la poliposi familiare del colon che predispone al cancro
del colon-retto o la forma familiare di cancro della mammella. In ogni caso,
queste opportunità diagnostiche sono da salutare positivamente in quanto
spingono l’individuo verso attività di prevenzione che, come è noto,
rappresentano una formidabile arma per la cura del cancro. E’, altresì vero
che la conoscenza di un rischio aumentato farà aumentare lo stato d'ansia in
persone psichicamente più labili, ma, comunque, anche in questo caso spetterà
esclusivamente al medico gestire la salute fisica e psichica dei propri
pazienti. Molto più complesse sono invece, le implicazioni etiche
dell’estendersi dei test diagnostici in campi quali, ad esempio, quello delle
assicurazioni o delle assunzioni di personale.
Già negli Stati Uniti la questione se gli
assicuratori o i datori di lavoro possano avere diritto di accesso alle
informazioni genetiche si è posta in maniera stridente, soprattutto a seguito
dell’estendersi dell’AIDS. I fautori del sì fanno notare come già oggi gli
assicuratori, prima di stipulare una polizza, richiedono una visita
medico-legale che consente di valutare il rischio di morte o di grave malattia
con una certa probabilità e fanno notare come scartare dal novero degli
assicurati persone geneticamente predisposte a contrarre gravi malattie può
contribuire a contenere i premi assicurativi per tutto il resto della
popolazione. D’altra parte, se si pensa che nei paesi a capitalismo avanzato
le assicurazioni sanitarie private stanno progressivamente sostituendosi alle
mutue statali, non si può non restare indifferenti di fronte alla giusta
esigenza da parte dell’individuo di sottacere su eventuali tare genetiche che
potrebbero condannarlo ad una inabilità o alla morte. La questione, come si
vede è molto complessa e mette in discussione il ruolo del medico legale che,
se da una parte come medico è tenuto al giuramento di Ippocrate che lo vincola
al segreto professionale, d’altra parte, lavorando egli su commissione non già
del paziente, è tenuto a violare questo segreto. Come già detto la questione
è già spinosa ma lo diventerà ancora di più nei prossimi anni con
l’estendersi di test diagnostici capaci di individuare i geni predisponenti
alle più diffuse cause di morte quali il cancro, il diabete, l’ipertensione.
Eugenetica
e manipolazioni genetiche
Il termine “eugenetica” (o eugenìa) intesa come
disciplina per migliorare le caratteristiche delle varie popolazioni umane
risale al 1883 con gli studi di F Galton che finirono, ben presto per alimentare
tesi razziste pseudoscientifiche, traducendosi nella Germania nazista nelle
famigerate leggi sulle restrizioni matrimoniali e sulla sterilizzazione
obbligatoria per particolari portatori di handicap. Nonostante queste
catastrofiche applicazioni, l’eugenetica, negli ultimi anni sta conoscendo un
rinnovato interesse a seguito della mappatura dell’intero patrimonio genetico
umano, che si prevede completa entro la fine di questo secolo. Fino ad ora
l’eugenetica, avvalendosi degli studi di genetica di popolazioni, si è
limitata a prevedere quali tipi di incroci sarebbero più adatti per eliminare o
diminuire geni indesiderabili dalle popolazioni umane. È evidente che il
discorso su quali siano le caratteristiche desiderabili da riprodurre e quali
quelle da eliminare è molto complesso. Sempre concordi sul voler eliminare
cecità, sordità e simili anomalie, non lo si è più quando si debba stabilire
quali siano i caratteri psicosomatici da incentivare. Scartate le velleità di
“migliorare” l’umanità selezionando una “razza eletta”, fino ad oggi
l’eugenetica si è posta lo scopo di prevenire la trasmissione dei geni
ritenuti indesiderabili (o veramente tali) con vari metodi, che vanno dallo
sconsigliare i portatori di tare genetiche (ad esempio Anemia falciforme) a
prolificare fino alla sterilizzazione degli stessi e che comprendono anche il
cosiddetto aborto eugenico.
Come è ovvio, l’irrompere sulla scena della
genetica molecolare e, quindi della possibilità di manipolare il corredo
genetico dei gameti ha ridato fiato ai fautori di una eugenetica come potenziale
artefice di un “miglioramento” della specie umana. La prima autorizzazione a
una terapia genica è stata concessa in USA dalla FDA il 14 settembre 1990 a
favore di una bambina con grave immunodeficienza. In questo caso, la mancanza di
un singolo gene strutturale recessivo in cellule a marcata attività
proliferativa, come la deficienza di adenosino-deaminasi nei linfoblasti, è
stata felicemente risolta con reintroduzione di cellule del sangue
opportunamente trattate. Va da sé che questo intervento, che ha permesso alla
bambina di vivere una vita normale, è stato, quasi unanimemente, salutato
positivamente anche se non pochi hanno fatto notare che l’estendersi di una
terapia genica, soprattutto quando questa interesserà cellule germinali umane,
rischia, in nome di un “miglioramento della specie umana” di compromettere
l’identità genetica della specie. Le premesse per la catastrofe ci sono
tutte: la legittima pretesa di evitare ai propri figli malattie ereditarie, la
protervia di non pochi scienziati, l’illusione che si possa asservire
completamente la natura, il business che già stanno pregustando non pochi
istituti di ricerca.
Donazioni
di organi e tessuti,
Già nel Medioevo, sia in Oriente che in Occidente, si
effettuavano trapianti autologhi di cartilagini, per ricostruire nasi e
orecchie, e più ancora di pelle per curare gravi ustioni ma bisogna aspettare
il 1905, con il trapianto di cornea tra individui omologhi effettuato da J. G.
Zinn, per vedere il nascere della “transplantologia” Ad ostacolare lo
sviluppo di questa disciplina è stato sostanzialmente la reazione immunitaria
dell’organismo che portava al rigetto dell’organo trapiantato; un problema
che si cercò di mitigare mediante irraggiamento (W. J. Dempster, 1950) e
successivamente (R. Schuartz e R. Y. Calne, 1960) utilizzando farmaci
antimetabolici. Dopo il successo del trapianto di midollo osseo fra individui
isologhi, (G. Mathé, 1958) vennero eseguiti trapianti d'organi quali il rene
(1959, da J. P. Merril e da J. Hamburger effettuati fra gemelli), il fegato
(1963, da T. E. Starzl), il polmone (1963, da J. D. Hardyen), il pancreas (1966,
da R. C. Lillehei), l'intestino (1967, da R. C. Lillehei), il cuore (1967, da Ch.
Barnard). Da allora, soprattutto grazie all’impiego di ciclosporina A, il
trapianto è diventato sempre di più un intervento di routine, suscitando
speranze in milioni di persone altrimenti condannati a morte o ad una umiliante
esistenza, e per la fine di questo millennio si avvia a costituire il 50% degli
interventi chirurgici effettuati sui bambini.
Anche nel nostro paese, l’incremento dei trapianti
ha determinato una serie di problemi etici che la prima legge italiana sui
trapianti, approvata nel 1975, cercò di affrontare. In realtà questa legge si
limitava, sostanzialmente, a consentire il prelievo di organi, (fatta eccezione
dell'encefalo e degli organi di riproduzione) da cadaveri, a prevedere una serie
di riscontri diagnostici per accertare l’effettiva morte del donatore e a
comminare una reclusione (da sei mesi e tre anni) a chiunque ricevesse denaro o
altra utilità, o anche solo promessa di ciò, per consentire al prelievo di
organi del proprio corpo o del corpo di altra persona. Come si vede già nella
legge del 1975 sollevava una serie di questioni che l’avanzare della ricerca
biomedica avrebbe reso più stridenti mentre non ne affrontava compiutamente
altre, quali ad esempio la disponibilità a servirsi dei propri organi dopo la
morte. Mentre in Francia è stato adottato i1 criterio del
silenzio‑assenso o del consenso presunto, dopo avere definito la
condizione di morte cerebrale, per cui le operazioni di prelievo vengono
eseguite in tutti i pazienti morti in ospedale, che non si siano pronunciati in
vita contro la donazione, in Italia continua nei fatti a vigere l'obbligo di
ottenere il consenso dei pazienti del donatore-cadavere. Un principio bioetico
certamente comprensibile ma di profondo travaglio psicologico che crea altro
dolore nei familiari sconvolti da un evento generalmente improvviso e spesso
traumatico.
Il discorso sui rischi connessi all’incremento nel
numero dei trapianti previsto per i prossimi anni inevitabilmente spazia su
considerazioni politiche. Basti pensare al traffico mondiale di reni alimentato
dalle masse sterminate di diseredati del Terzo Mondo disposti a mutilarsi pur di
non morire di fame. Come succede a a Bangalore, nello Stato indiano del
Karnataka dove, secondo un’inchiesta governativa, negli ultimi due anni sono
stati espiantati ben 600 reni, venduti a 12.000 dollari l’uno negli USA mentre
appena 100 dollari è stato corrisposto ad ogni singolo
“donatore”. Ancora peggio in Brasile dove, secondo articoli apparsi
qualche tempo fa su autorevoli mass media, decine di
bambini vengono uccisi per prelevarne organi da vendere sul mercato
nordamericano ed europeo. E lo stesso commercio mondiale del sangue, certamente
meno agghiacciante di quello degli organi è una spia delle sempre più
insopportabili contraddizioni economiche e sociali che attanagliano il nostro
pianeta. In realtà, la compravendita di organi umani da usare per fini di
trapianto, in una società nella quale il mercato si sta trasformando in legge
suprema della convivenza, sta diventando un fenomeno quasi dovunque un fenomeno
accettato; basti pensare alle disinvolte affermazioni che cominciano ad
affiorare su non poche riviste mediche, alle presunte giustificazioni
filosofiche basate sulla “libertà personale” e sul “diritto a disporre
del proprio corpo”, o ai camuffamenti linguistici che hanno portato a definire
il venditore come "donatore retribuito" e questo commercio come
"donazione non altruistica".
Secondo il nostro punto di vista, invece, la
“compravendita” di organi e di componenti lungi dal costituire una “libertà
di disporre del proprio corpo” rivela in realtà una manifestazione di
contrattualismo individualistico che nega ogni concetto di solidarietà e se un
criterio orientativo deve essere posto, noi riteniamo che esso vada individuato
nella prospettiva del dono di organi. In questo senso la promozione di una
cultura e di un'educazione al dono può contrastare efficacemente il commercio
del corpo umano e gli atti criminali che vi possono esser connessi. È la
cultura del dono che l'etica può e deve urgentemente incoraggiare, se si pensa
che l’allungamento progressivo della vita nei paesi a capitalismo avanzato
porterà il trapianto di organi a diventare il vero “business” della
chirurgia nei prossimi anni. Parallelamente a ciò l'approvazione della legge
del 1993 sull'accertamento e la certificazione della morte (la morte di un
individuo coincide con la morte del suo cervello), fa sentire l'urgenza di una
nuova normativa che consenta il prelievo da cadavere di organi, tessuti e
cellule là dove esiste il consenso o la non opposizione del cittadino.
Ma al di là delle pur importanti norme resta
l’esigenza in Italia di un valido coordinamento. In tal senso un valido
contributo potrebbe essere dato dalla istituzione del Centro nazionale di
riferimento per i trapianti, previsto già nel '75 ma mai realizzato, che dovrà
permettere di avere in tempo reale tutti i dati sui donatori, i tipi di organi a
disposizione, le liste di attesa, accelerando tutte le fasi dalla segnalazione
al prelievo, fino al trapianto. A tal proposito vale la pena di ricordare il
caso dell’ospedale del Bambino Gesù a Roma, che su 28 casi di coma
irreversibile in bambini per i quali genitori avevano dato l’assenso di organi
è stato possibile procedere all’espianto soltanto in sette casi. Per
rimediare a queste situazioni si tratta di realizzare una efficace rete
organizzativa. Un interessante modello di riferimento è quello della Spagna,
dove un Transplant coordinator ossia
un medico specializzato affiancato da alcuni collaboratori, sovrintende al
prelievo e alla segnalazione, oltre che all'organizzazione di corsi di
preparazione per medici e paramedici.
Ma
concentriamo il nostro discorso sulla trasfusione del sangue in Italia.
Argomento certamente spinoso se si pensa che sono ben 6950 le pratiche per danni
da trasfusione depositate al ministero della Sanità. In Italia vengono
effettuate ogni anno circa due milioni di trasfusioni di plasma; come è noto,
grazie anche alla scarsa sensibilizzazione della popolazione italiana a questo
problema, il nostro paese è costretto ad spendere ogni anno 500 miliardi di
lire per acquistare sangue da paesi stranieri alcuni dei quali, tra l’altro,
caratterizzati da vere e proprie endemie. Le conseguenze possono essere
clamorose come dimostra il caso del sangue infettato da virus HIV che in
mancanza di seri screening è stato importato dalle Antille in Francia dove ha
fatto vere e proprie stragi; una situazione questa che ha portato
all’incarcerazione del dottor Michel Garretta, direttore dei servizi
trasfusionali, e all’incriminazione dei ministri della Sanità e degli Affari
sociali, deferiti all'Alta Corte di giustizia per "complicità in
avvelenamento". Nel campo della trasfusione L’infezione da virus HIV pone
enormi problemi nel campo della trasfusione e dei trapianti. Il primo è legato
alla diffusione di questa infezione che, nonostante sia scomparsa quasi del
tutto dai mass media, continua ad estendersi e a radicarsi soprattutto nei paesi
del Terzo Mondo che sono al momento i maggiori “fornitori” di sangue per il
mercato mondiale. Il secondo, ancora più subdolo, è legato alla lunga latenza
della sieroconversione dell’HIV (anche sei mesi) che rende abbastanza incerti
i test di identificazione dell’infezione con le conseguenze che è facile da
immaginare. Un aspetto. finalmente positivo, delle trasfusioni legato all’AIDS
è, comunque, quello evidenziato tempo fa dal caso di un donatore HIV positivo
che ha trasfuso sangue nel fratello ammalato di AIDS producendo in questi dei
miglioramenti che lasciano intravedere una interessante strada per la terapia di
questa malattia.
Fecondazione
artificiale
Le tematiche di bioetica inerenti la procreazione
hanno conosciuto una singolare ribaltamento. Fino a non molti anni fa, il
dibattito, sollevato principalmente dalla Chiesa cattolica, verteva soprattutto
sul contenimento delle nascite e sull’opportunità degli anticoncezionali e
dell’aborto. Oggi, con il basso tasso di fertilità che sta
contraddistinguendo la popolazione italiana l’attenzione si è concentrata,
invece, sulla cosiddetta fecondazione artificiale. Questa, come è noto fino a
non molti anni fa era limitata al mero inserimento, nel collo dell’utero della
donna, di sperma proveniente dal marito; progressivamente si è passati alla
creazione di banche di sperma, offerto da donatori anonimi, e alla cosiddetta
fecondazione in vitro in cui l'embrione, ottenuto “in provetta”, è poi
trasferito nell'utero; più recente è la pratica delle “madri surrogate”,
donne cioè che accettano di ricevere nel proprio utero un embrione estraneo.
La procreazione con l'impiego di tecniche artificiali
determina situazioni abbastanza controverse dal punto di vista del diritto e
della bioetica. In particolare permette di scomporre in due la figura del padre,
distinguendo fra il padre genetico (l'uomo da cui provengono gli spermatozoi) e
quello destinato a essere, nell'intenzione, il padre sociale; permette di
scomporre la figura della madre addirittura in tre, distinguendo fra la madre
genetica (la donna da cui proviene l'ovocita), la madre gestante (la donna che
porta la gravidanza e che partorisce) e la donna destinata a essere,
nell'intenzione, la madre sociale; permette al genitore genetico di procreare
anche dopo la sua morte, grazie alla surgelazione degli spermatozoi e degli
embrioni. Come è evidente si tratta di questioni oggetto di accese discussioni
e di forti, radicali contrasti di posizioni.
Vi è in particolare una contrapposizione che vede
schierata a un estremo la Chiesa cattolica, che ha emesso nel 1987, con
l'istruzione Donum vitae, una completa
e radicale condanna del fenomeno, e all'altro estremo i fautori di
un'altrettanto radicale libertà, tale da consentire alla volontà dei singoli
adulti di coronare comunque i propri desideri, sottraendo questa materia al
principio d'indisponibilità che per tradizione la governa, e fondando la
risoluzione di ogni controversia fra le persone interessate sul principio nemo
contra factum proprium, a imitazione di quello che viene postulato come il
modello nordamericano.
In Italia, la procreazione assistita non ha ancora
ricevuto in Italia una soddisfacente normativa, basti pensare che essa non viene
menzionata nemmeno nel diritto di famiglia pure risalente al 1975, periodo in
cui la questione sollevava numerose disposizioni legislative in altri paesi.
L'emanazione in Italia di una legge destinata a disciplinare l'impiego delle
tecniche artificiali nella procreazione è oggetto da oltre un decennio di un
dibattito assai acceso. La fase di maggior sviluppo della discussione ha
coinciso con la conclusione dei lavori della commissione di nomina ministeriale,
presieduta da Fernando Santosuosso, che ha elaborato due progetti di legge in
materia, diversi soprattutto per la differente ampiezza della materia
disciplinata; considerati gli sviluppi che ha conosciuto negli ultimi anni la
procreazione assistita è, comunque, probabile che nessuno dei due progetti
della commissione Santosuosso verrà adottato come modello della futura e
largamente auspicata legge. I problemi giuridici sollevati dalla procreazione
artificiale vertono oggi su questioni quali l'età massima della donna per poter
ricevere un embrione; la possibilità di fecondazione per coppie eterosessuali
non sposate, per donne sole, per coppie di donne omosessuali; l'attribuzione
della paternità e il disconoscimento in caso di inseminazione con sperma di un
datore anonimo; l'attribuzione della maternità, l'affidamento del neonato e
l'adozione in caso di gravidanza per conto altrui; la liceità dell'operazione
procreativa dopo la morte del genitore genetico e l'attribuzione della paternità;
l'eventuale diritto del nato di conoscere la propria origine genetica, in
relazione all'eventuale diritto all'anonimato del datore di gameti. Più in
generale la discussione verte sul dilemma se la procreazione artificiale, debba
essere guardata dal punto di vista del genitore, della sua libertà o di un suo
supposto diritto di essere tale e soprattutto di svolgerne le relative funzioni
oppure dal punto di vista del figlio, del suo diritto di vedersi attribuito un
determinato status.
Un particolare aspetto della questione, che investe
l'essenza stessa della definizione di essere umano, è quello costituito dal
“diritto” inerente i gameti (che, come è noto, sono le cellule dalla
fusione delle quali si origina un nuovo individuo) soprattutto alla luce di un
loro possibile impiego per uso sperimentale. Non essendo applicabili
all'embrione le norme sulla sperimentazione umana, poiché esse prevedono il
consenso del soggetto, la questione ha riaperto una problematica che si riteneva
definitivamente archiviata nel momento in cui è stata approvata la legge
sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il dibattito, come prevedibile, ha
portato alla creazione di due “schieramenti”: coloro che ritengono tale
sperimentazione indispensabile per la scienza, a causa dei vantaggi conoscitivi
e pratici che essa potrà dare, e coloro che vi si oppongono sostenendo che fin
dal momento della fecondazione l'embrione e' persona umana o potrebbe essere
persona, tesi questa sostenuta dalla Chiesa cattolica. In attesa di una
normativa esaustiva, uno dei pochi punti di riferimento su questo punto è
quello dato, in Inghilterra, da una commissione governativa, presieduta dalla
filosofa Mary Warnock e seguita dall'approvazione in Parlamento, nel 1990, dell'Human
Fertility and Embriology Bill, che autorizza la sperimentazione fino al 14°
giorno dopo la fecondazione.
Conclusioni
Oggi, accanto ai vantaggi diagnostici e terapeutici
dell'ingegneria genetica, si profilano dilemmi totalmente nuovi rispetto al
passato che suscitano apprensioni, paure, polemiche e che pongono lo scienziato
di fronte a stridenti problemi etici. L'ingegneria genetica e più in generale
le nuove tecnologie della riproduzione e biomediche, producendo innovazioni
totalmente nuove, al di fuori degli schemi precedenti, hanno finito per
scardinare, sia nel campo laico che in quello religioso, valori e punti di
riferimento tradizionali. La possibilità di manipolare la vita, come mai era
stato concesso all’Uomo, pone nelle nostre mani una immensa responsabilità e
delinea un futuro gravido sia di scenari radiosi che di catastrofe. Che fare per
ridurre questi rischi? Spesso quando si parla dei rischi della scienza, si
ricorda un'antichissima leggenda tramandataci da Esiodo: Zeus, irato contro
Prometeo che aveva osato rubargli il segreto del fuoco, decise di punire
l'umanità attraverso Pandora alla quale consegnò un vaso dove erano rinchiusi
tutti i mali del mondo ordinandole di non aprirlo mai. Ma la curiosità di
conoscere fu più forte della prudenza e Pandora ruppe il vaso. Fu così che,
irreparabilmente, i mali si sparsero sulla Terra. E' questa l'umiliante lezione
che dovrebbe trarre l'umanità? Mettere fine al suo innato desiderio di
conoscenza in nome della paura? Probabilmente si tratta di una strada
impraticabile. Meglio, forse, ridurre al minimo le distanze tra chi fa ricerca e
chi dovrà subirne le conseguenze; aprire alla gente i laboratori di ricerca e
le torri d'avorio del Sapere per poter decidere tutti insieme cosa fare, e a
qual prezzo. Da questo punto di vista la bioetica deve abbandonare il chiuso
degli “addetti ai lavori” e delle Commissioni per diventare patrimonio di
conoscenza e di dibattito per tutti noi.
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