GIULIO TARRO
Bioetica e Ambiente
Il rapporto tra bioetica e ambiente e cioè le riflessioni su come
l’uomo debba rapportarsi all’ecosistema è un argomento talmente vasto che -
dal Rerum Naturae di Lucrezio, al Cantico
delle Creature di Francesco di Assisi, a Primavere
silenziose di Rachel Carson... - finirebbe per includere buona parte del
pensiero filosofico. Meglio quindi focalizzare il discorso sul concetto di
“natura” impostosi negli ultimi anni. Per secoli, sia nel pensiero
occidentale che in quello orientale, nelle sue migliori espressioni, ha
propugnato la visione di una “natura” come qualcosa da tutelare per
garantire una perfetta armonia di questa con l’uomo. A partire dagli anni
ottanta, comunque, questo concetto ha avuto un netto ribaltamento con
l’irrompere sulla scena di tecnologie di potenzialità inaudita, quali
l’energia nucleare e le biotecnologie. Queste, permettendo di stravolgere i
codici stessi della materia e della vita, hanno posto per la prima volta nella
Storia la possibilità che l’Uomo possa compromettere a tal punto l’ambiente
da porre in forse la sua stessa esistenza.
Queste potenzialità hanno suscitato un lacerante dibattito, che sta
attraversando tutto il mondo della scienza e della cultura, pesantemente
caratterizzato dal ridimensionamento che, negli ultimi anni, ha avuto il
concetto di “progresso scientifico” con il quale, almeno dall’Illuminismo
in poi, si sono giustificati gli stravolgimenti che le nuove scoperte andavano a
determinare. Di pari passo la lettura di una Scienza come sicura ancella che
avrebbe guidato l’umanità verso la liberazione dalle proprie umilianti catene
è stata soppiantata da una sempre più diffusa sfiducia, sulla capacità
dell'uomo di controllare le proprie creazioni e il mito di Prometeo è stato
sostituito da quello dell'apprendista stregone.
Alla ricerca di nuovi valori
Si pone quindi l’esigenza di definire intorno a quali valori si debbano
plasmare le scelte del mondo scientifico. Compito certamente difficile in quanto
la Scienza per ormai secolare tradizione si è sviluppata su binari
completamente diversi, in molti casi opposti, a quelli basati sui valori
metastorici della Religione. Vi è quindi la necessità di definire una bioetica
laica e in tal senso va salutato certamente positivamente il dibattito
sviluppatosi intorno al “Manifesto per
una Bioetica laica” stilato nel giugno 1996. In questa sede vogliamo
offrire il nostro modesto contributo a questo dibattito, focalizzando
l’attenzione sul rapporto tra Bioetica e Ambiente, in particolare quello che
si struttura nel contesto dell’utilizzo di organismi manipolati geneticamente.
Ma prima è necessaria una precisazione sul concetto di “ambiente”
anche perché negli ultimi anni si è imposta quasi una sacralizzazione della
“natura” vista come un’entità intoccabile avulsa da qualsiasi contesto
culturale mentre la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito è stata
fatta discendere da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò
che naturale non sarebbe. E così, ad un atroprocentrismo esasperato imperante
fino a non molti anni addietro, che negava all'ambiente non umano (acqua, suolo,
montagne, piante ed animali) ogni rilevanza morale, si è finito per
contrapporre una dogmatica Enviromental
Philosophy, che arriva a ritenere auspicabile una drastica riduzione della
presenza umana in nome del pieno sviluppo e mantenimento dell’ecosistema, e
che, sotto certi aspetti, rischia di riproporre quell’”etica della terra”
che è stata alla base delle dottrine naziste.
Una, a nostro avviso, corretta lettura dell’ambiente deve scaturire,
invece, dal rapporto di questo con l’azione umana. Sorge, a questo punto,
l’esigenza di definire cosa debba guidare l’azione umana e cioè
l’identificazione di alcuni principi che devono guidare le nostre scelte.
In primo luogo, facendo nostre le parole del “Manifesto per una Bioetica laica”,
riteniamo, che sia necessario considerare il progresso della conoscenza
come un valore etico fondamentale. L'amore della verità è, infatti, uno dei
tratti più intimamente connessi al nostro essere e non tollera che esistano
autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non
è lecito conoscere. In secondo luogo bisogna vedere l'uomo come parte della
natura, non come opposto ad essa. Ed essendo parte della natura, l’uomo può e
deve interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli
equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi. In terzo
luogo, è importante ribadire come il progresso della conoscenza sia la fonte
principale del progresso dell'umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza
che deriva la diminuzione della sofferenza umana.
Questi tre principi riteniamo siano particolarmente rilevanti per quanto
riguarda il progresso delle conoscenze nella genetica umana e nelle terapie
genetiche in quanto voler conoscere quel che costituisce la propria natura
biologica, fino ai componenti ultimi, non è folle presunzione, ma espressione
di quella caparbia curiosità, di
quell’amore di conoscenza, che ha sempre spinto l'uomo. E voler intervenire su
questa natura biologica al fine di diminuire la sofferenza non è espressione di
nichilismo ma solidarietà verso la propria specie, amore verso i propri simili.
La
salvaguardia del patrimonio genetico
La disamina del rapporto tra ambiente e bioetica
acquista una particolare rilevanza considerando l’irrompere sulla scena
delle biotecnologie che, permettendo all’uomo di modificare non solo la
natura che lo circonda ma la sua stessa natura, prospetta potenzialità e
rischi che non hanno precedenti. Ma la disamina dell’impatto delle
biotecnologie non può limitarsi alle sole ricerche inerenti il genoma umano;
anche perché, finora, le più clamorose ripercussioni delle manipolazioni
genetiche si sono avute nel settore dei vegetali. Una situazione questa che
rischia di determinare nei prossimi anni conseguenze catastrofiche.
Delle
300.000 specie di vegetali superiori ben 5-600 risultano essere commestibili
per l'uomo ma oggi il 95 per cento del nostro fabbisogno alimentare
complessivo é affidato a soli 30 tipi di piante; almeno i tre quarti della
dieta mondiale é basata su sole 8 colture mentre riso, mais e sorgo coprono
da soli il 50 per cento del fabbisogno alimentare mondiale. Questo progressivo
processo di restrizione del patrimonio alimentare non dipende più soltanto
dalla facilità di coltivazione o di conservazione degli alimenti ma é stato
voluto dai detentori dell'agrobusiness e
cioè di alcune multinazionali che controllano oggi il mercato mondiale dei
semi (il 67 per cento dei semi impiegati oggi é coperto da brevetto) che
producono piante rigogliose ma, per evidenti motivi commerciali, sterili.
Questa politica ha finito per determinare la quasi totale distruzione del
patrimonio genetico delle specie alimentari e oggi, ad esempio, il 70 per
cento della produzione agricola mondiale di mais é affidata a sole sei varietà;
in Canada il 70 per cento del prodotto nazionale dipende da appena 4 varietà
di frumento e 3 di orzo; la quasi totalità del lino e della colza dipende
oggi da sole 4 varietà; in Egitto, addirittura, dove esisteva una infinita
varietà di cipolle, questa é oggi presente in un unica specie mentre negli
USA sono andate perdute seimila varietà di mele sulle settemila catalogate
alla fine dell'Ottocento.
E' una situazione che presenta gravi rischi in quanto
é messa in discussione quella che é stata la principale risorsa della natura
nella lotta per la sopravvivenza: la diversità. Oggi, infatti, sterminati
appezzamenti di monocolture agricole (ma lo stesso discorso potrebbe essere
fatto per gli animali da allevamento) devono la loro sopravvivenza
esclusivamente alle incessanti cure dell'uomo e all'utilizzo sempre più
massiccio di antiparassitari. Questa elevata vulnerabilità dell'agricoltura
può tradursi in un disastro davanti ad un evento improvviso e inusuale come
una brusca variazione climatica, un momentaneo abbandono delle terre, un nuovo
parassita. La distruzione di metà del raccolto del caffè brasiliano,
avvenuta nel 1985 é emblematica di questo grave rischio che grava oggi
sull’umanità. Le sterminate piantagioni di caffè brasiliane e latino
americane discendono, infatti, da un'unica pianta indonesiana trasportata, nel
1706, nel giardino botanico di Amsterdam e da lì, nel 1715, ritrasportata nel
nord del Brasile.
Ma l'erosione genetica é stata accelerata
dall'ingresso delle multinazionali chimico farmaceutiche che immettono sul
mercato sementi high yelding varieties,
ottenute con la manipolazione del DNA, che garantiscono un altissimo
rendimento ma che necessitano di dosi sempre crescenti di diserbanti e
antiparassitari, guarda caso, prodotti, dalla stessa ditta. Naturalmente, non
bisogna demonizzare l’impiego della bioingegneria nell’agricoltura: in
molte parti dell'Africa, ad esempio, la disponibilità di mais è aumentata
notevolmente grazie all'abbandono di alcune specie poco redditizie e
all'introduzione di un nuovo ibrido capace di assorbire più rapidamente
l'acqua dal terreno, resistere all'essicazione della terra e germogliare venti
giorni prima. La FAO, tra l'altro, sta intervenendo per arrestare il processo
di impoverimento del germoplasma, ad esempio, aiutando i paesi poveri a
dotarsi di una banca del germoplasma e di coltivazioni protette che perpetuino
specie vegetali non più impiegate in agricoltura. Purtroppo per costruire e,
soprattutto, per garantire il continuo funzionamento di queste strutture
occorrono centinaia di miliardi. Che non sempre ci sono, così come è emerso
nel Vertice Mondiale
sull'Alimentazione, tenutosi a Roma nel novembre 1996.
Il problema era già stato sollevato nella Conferenza
delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (Unced) tenutasi a Rio de
Janeiro nel giugno 1992 che avrebbe dovuto ratificare la Convenzione sulla
Diversità Biologica (CBD), e che stabiliva per la prima volta la necessita'
di salvare la complessità delle specie viventi e l’esigenza di strumenti
giuridici internazionali e accordi di informazione preventiva, circa il
trasferimento, la manipolazione e l'utilizzo di organismi geneticamente
modificati. Ma questa fondamentale esigenza di tutelare l’integrità
dell’ecosistema si è, purtroppo, infranta con enormi interessi economici e
politici. I problemi della biosicurezza, infatti, si intrecciano nel quadro
delle relazioni tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo: i primi
portatori del know how
biotecnologico, i secondi depositari di gran parte del patrimonio della
biodiversita' naturale e cioè della miniera di risorse genetiche a cui
attingono le biotecnologie. Non a caso, la Convenzione di Rio è ancora in
attesa di una ratifica da parte degli Stati Uniti e di altri importanti paesi
occidentali mentre i protocolli previsti dall'United Nation Environment
Program (UNEP) inerenti le ''linee guida tecniche internazionali per la
sicurezza nelle biotecnologie'' sono state sostanzialmente disapplicate da
tutti. Non resta, quindi, sperare che i negoziati sulla sicurezza delle
biotecnologie inerenti l’agricoltura, discusse nell’agosto 1996 in
Danimarca e che costituiranno l’asse centrale della Conferenza sulla
diversità biologica che si terrà alla fine di novembre 1996 a Djakarta,
vadano finalmente in porto. Una nota consolante viene, comunque, dai paesi
della Comunità Europea dove i protocolli della Conferenza di Rio, sulla
valutazione dei rischi connessi all’immissione nell’ambiente di organismi
manipolati geneticamente, (già affrontati nel rapporto OCSE Recombinant
DNA Safety Considerations, nelle Safety
considerations for biotechnology, del 1992, e nel Safety considerations for biotechnology scale-up of crop plants, del
1993) stanno diventando linee guida per l’emanazione di normative nazionali.
Il
rischio genetico
Ma, al di là delle pur necessarie normative miranti a
scongiurare un disastro prodotto dall’immissione di organismi geneticamente
manipolati, è necessaria una più ampia riflessione sul ruolo sempre più
dirompente che stanno avendo le biotecnologie che, con la loro possibilità di
modificare la natura stessa degli organismi viventi, hanno ormai trasformato
l'immagine e il ruolo delle scienze biomediche suscitando speranze e
inquietudini che non trovano riscontro in nessuna altra conquista della
Scienza. L’utilizzo delle biotecnologie ha, infatti, finito, per
estremizzare quel dualismo di timori e speranze già conosciuto dal pensiero
scientifico e sublimato in due antichi miti greci: quello di Igea che guarda
alla natura come a un'entità da assecondare, da seguire, da non coartare e
quello di Asclepio che rappresenta lo sforzo dell’uomo di indirizzare il
corso della natura, piegandolo alle sue esigenze.
Ma prima di sposare questa o quella posizione sarebbe
utile domandarsi cosa oggi sappiamo veramente delle dinamiche che potrebbero
determinarsi nell’ecosistema con l’immissione di organismi manipolati
geneticamente. Le risposte possono essere due. Molto, se si considera
l’enorme mole di studi di impatto ambientale prodotti negli ultimi decenni.
Poco, considerando le infinite strategie della vita per perpetuarsi e
affermarsi e soprattutto gli enormi rischi che questa scelta comporta. Da
questo punto di vista desta non poche preoccupazioni il fatto che si
disseminino nell’ambiente microrganismi manipolati geneticamente quando,
ancora oggi, non abbiamo conoscenze precise sulla funzione, ad esempio, degli
esoni che costituiscono il 95 per cento della struttura nucleotidica.
Nonostante ciò, nel giro di neanche dieci anni, le
biotecnologie si sono trasformate in un business di due miliardi di dollari
trasformando quelli che erano attempati e tranquilli biologi, genetisti,
fisici molecolari... in frenetici uomini di affari; una tendenza questa che ha
conosciuto una vorticosa accelerazione nell’aprile 1987 quando il
Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha decretato la possibilità di
brevettare nuove forme di vita. Le biotecnologie stanno così sconvolgendo
ogni attività produttiva scatenando tra nazioni e imprese una corsa
all'invenzione, produzione e utilizzazione del microrganismo più efficiente.
Ai primordi delle biotecnologie i nuovi e operosi microrganismi erano
confinati in silos di acciaio a produrre nuovi fermenti per l'industria
casearia, insulina, ormoni... Poi si è passato ad immettere queste nuove
forme viventi all’esterno: l'industria mineraria, ad esempio, ha messo al
lavoro un batterio manipolato, il Thiobacillus ferrooxidans, capace di estrarre l'oro; l'industria
petrolifera cosparge le chiazze di petrolio disperse in mare con il germe Acinobacter
calcoaceticus che si alimenta esclusivamente di idrocarburi; l'industria
agroalimentare impiega un inedito ceppo del batterio Pseudomonas
Syriringae per impedire che le gelate primaverili distruggano le
coltivazioni di fragole...
Ma soffermiamoci su quest'ultimo microrganismo che ha
scatenato una polemica che ha, finalmente, aperto gli occhi a vasti strati
dell'opinione pubblica sui rischi che le biotecnologie comportano. Ogni anno
le gelate producono negli USA danni per 12 miliardi di dollari, indennizzati,
in parte, dalle compagnie di assicurazione. Furono proprio queste compagnie
che, nel 1982, decisero di sponsorizzare un progetto di ricerca proposto dai
laboratori del Advanced Genetic Sciences (AGS) di Oakland in California e cioè
immettere sulle piantine di fragole un microbo appena «inventato» da due
scienziati americani, Steven Lindow e Nicolas Panoupolos, nato dalla
manipolazione del codice genetico dello Pseudomonas
Syriringae capace di abbassare di 4‑5 gradi la temperatura di
formazione del ghiaccio all'interno delle cellule vegetali delle fragole,
salvando così moltissime di queste piantine dalle gelate. Nel novembre 1984
l'esperimento di disseminazione open
field (e cioè nell'ambiente esterno) stava cominciando alla chetichella
con l'approvazione dell'Environment
Protection Agency (l'agenzia federale che negli USA è preposta al
controllo e alla salvaguardia dell'ambiente) quando, il «caso» esplose su
tutti i mass media americani. Quali garanzie c’erano, si chiesero in molti,
che il nuovo microrganismo, una volta disseminato nell'ambiente si sarebbe
accontentato di proteggere le piantine di fragole e non avrebbe, invece,
determinato una catastrofica situazione trasmettendo, ad esempio, la sua
capacità di resistere al freddo agli insetti? La polemica investì in pieno
il Comitato Consultivo sul DNA ricombinante del National
Institute of Health che si spaccò in due tronconi; uno rappresentato da
Bernard D. Davis, «difensore» dell'open
field, l'altro rappresentato da Francis E. Sharples, implacabile
avversario di questa tecnica.
Per Davis la disseminazione nell'ambiente dei nuovi
microrganismi prodotti per uso industriale dalle aziende di biotecnologia (che
negli USA operano, anzi, dovrebbero operare, sotto stretto controllo dell'Environment
Protection Agency) non determinava rischi particolari in quanto in ogni
momento, sotto l'influsso dei raggi cosmici, della selezione naturale o del
caso, la natura crea nuovi microrganismi. Un microrganismo per impiantarsi
stabilmente nell'ecosistema e quindi prolificare nel proprio habitat ha
bisogno di lunghi periodi di selezione naturale cosa che non sarebbe stato
possibile per i nuovi microrganismi che hanno scarsissime capacità di
adattamento. Sulla base di ben stabiliti principi di biologia evolutiva e
microbiologia, la deliberata introduzione di un nuovo ceppo batterico
nell'ambiente non poteva dirsi, quindi, particolarmente pericolosa. Davis
chiedeva, perciò, all'Environment
Protection Agency di abbandonare le sue eccessive restrizioni per favorire
lo sviluppo di questo promettente campo di ricerca e di applicazioni
tecnologiche. Di tutt'altro avviso era Francis E. Sharples il quale faceva
notare che oggi sappiamo ancora troppo poco sui reali pericoli connessi
all'immissione nell'ambiente di nuovi microrganismi che, tra l'altro, spinti
dal cieco bisogno di sopravvivere, potrebbero, in assenza di fattori
limitanti, andare a installarsi in una nicchia ecologica completamente diversa
da quella che era stata prevista dai loro «creatori». Da questo punto di
vista, l'immissione nell'ambiente esterno di ben 10.000 nuovi microrganismi,
prevista entro il 2000, era una follia.
Intanto, mentre le polemiche sulla disseminazione del Pseudomonas
Syriringae si conquistavano la prima pagina dei giornali, scoppiava il
caso Stroebel, un patologo della Montana University che, nel giugno 1985,
senza chiedere alcuna autorizzazione e senza informare nessuno, disseminava
nell’ambiente esterno microrganismi da lui manipolati geneticamente,
dopodiché si costituiva alle autorità per protestare contro le “ridicole
limitazioni agli esperimenti di biotecnologia”
dichiarando, inoltre, di aver rilasciato già negli anni precedenti
altri batteri da lui manipolati geneticamente. Mentre il caso Strobel si
conquistava il suo spazio sui giornali, si veniva a sapere che un gruppo di
biologi tedeschi aveva immesso nell’ambiente un ceppo modificato del
batterio Rhizobioum, nonostante
fossero stati già diffidati dal farlo dalle autorità tedesche.
Episodi come questi rivelano un’inaudita potenzialità
posta nelle mani dello scienziato che non trova riscontro nella storia
dell’umanità e che sottolineano l’esigenza che di pari passo
all’emanazione di norme (così come è stato fatto nel nostro Paese con
l’emanazione della legge 142/92, dei decreti n.91 e n. 92 del marzo 1993 che
prescrivono la necessità di notificare lo svolgimento delle attività di
ricerca che comportano l'utilizzo di microrganismi geneticamente modificati e
con l’insediamento presso il Ministero della Sanità del "Comitato
Scientifico per i rischi derivanti dall'impiego di agenti biologici")
cresca di pari passo un’opera di sensibilizzazione del mondo della ricerca.
Questa non può certo limitarsi a imporre drastici limiti alla ricerca
genetica ma, al di là di contrapposizioni obsolete quali scienze/fede,
amici/nemici della scienza, progresso/romanticismo, conoscenza/valore, deve
sollecitare nello scienziato una riflessione su quello che deve essere il suo
ruolo nella società. Da questo punto di vista va salutate positivamente
l’istituzione, anche in Italia, di cattedre e di corsi universitari di
Bioetica anche se ancora molta strada resta da fare.
I
diritti degli animali
All’interno del settore biologico e medico, il
rapporto tra bioetica e ambiente non può non toccare il controverso rapporto
tra Scienza e sacrificio di innumerevoli animali da laboratorio.
Intanto, una precisazione. Chi scrive queste righe (e
forse anche chi le legge) non si commuove davanti a una bistecca di manzo o
davanti a un pollo arrosto, e crede che senza lo sfruttamento degli animali
(ad esempio le bestie da soma) l'umanità non sarebbe andata molto avanti
sulla strada del progresso. Se la sperimentazione sugli animali, almeno com'è
fatta oggi nella stragrande maggioranza dei paesi, fosse soltanto finalizzata
a lenire le sofferenze dell'uomo
o a garantirgli un futuro meno insidioso, il sacrificio giornaliero di milioni
di animali di laboratorio dovrebbe, quindi, essere visto come un male
inevitabile. Ma le cose non stanno così, e contro le inutili sofferenze che
subiscono gli animali nei laboratori si levano sempre più numerose e
qualificate voci di protesta.
Com’è
noto a chiunque faccia ricerca biomedica, negli ultimi anni contro gli
esperimenti basati su animali è stata scatenata una “crociata” da parte
di alcuni settori del mondo animalista che sottolineano la fallacia del
trasporre all’uomo conoscenze acquisite con sperimentazioni animali. In
effetti, gli esempi non mancherebbero. Basti pensare che uno degli errori più
nefasti per l'umanità, è stato nel Medioevo l'abbandono delle regole
igieniche che il naturalista e medico Galeno, avendo osservato che gli animali
vivevano benissimo senza lavarsi le zampe e che le loro ferite si
rimarginavano senza cure, considerava un'antica superstizione. L'umanità tra
l’altro avrebbe dovuto rinunciare a numerosissime scoperte farmacologiche se
avesse cominciato a sperimentare le nuove sostanze sugli animali: l'Aspirina,
ad esempio, che provoca la nascita di ratti focomelici mentre è innocua alla
specie umana. Allo stesso tempo, farmaci che non avevano avuto alcuna reazione
negativa nelle migliaia di animali da laboratorio sui quali erano stati
sperimentati, hanno provocato effetti disastrosi nella popolazione umana: fra
questi, solo per citare i casi più tristemente noti, il Talidomide (un
tranquillante che, negli anni Sessanta, determinò la nascita di oltre dieci
mila neonati deformi, con moncherini al posto delle braccia), il Paracetanol
(un analgesico che nel 1911 provocò più di mille e cinquecento ricoveri
nella sola Inghilterra), o l'Isoproterenol (uno spray che nel 1973 uccise
migliaia di asmatici).
Va da sé che queste considerazioni con l’avanzare
della ricerca biomedica hanno perso gran parte della loro attualità e oggi la
sperimentazione sull’animale è solo uno dei passi di una più accurata
sperimentazione farmacologica. Il discorso sulle sofferenze degli animali di
laboratorio meriterebbe, invece, un’altra impostazione che parte da una
riflessione su un certo modo di fare “ricerca scientifica” spesso
finalizzata esclusivamente alla promozione accademica del ricercatore. Spero
che questa mia affermazione non venga considerata una bestemmia ma, se si
osserva da vicino il lavoro di non pochi biologi, farmacologi o medici
impegnati nella sperimentazione, la sensazione che si avverte è che lo scopo
principale delle loro ricerche è, sostanzialmente, quello di accatastare
pubblicazioni che, spesso, "dimostrando" teorie vecchie di decenni,
spianano loro la via verso una più o meno prestigiosa carriera accademica. E
visto che le redazioni delle riviste scientifiche pretendono, quasi sempre,
che gli studi siano accompagnati da test su animali, ogni pubblicazione è
preceduta dal sacrificio di un numero altissimo di cavie.
Anni fa, un migliaio di ricercatori statunitensi era
insorto contro questa logica perversa, e aveva chiesto a numerose riviste
scientifiche di rifiutare almeno quei lavori nei quali gli esperimenti sugli
animali potevano facilmente essere sostituiti da altri che impiegassero metodi
incruenti, considerati oggi più affidabili della sperimentazione animale
come, ad esempio, la simulazione computerizzata della dinamica molecolare,
l'ingegneria biomedica, la sperimentazione in colture di cellule...
Naturalmente non se ne fece niente, anche perché, per le non poche riviste
scientifiche che pubblicano ricerche di dubbio valore e che sopravvivono quasi
esclusivamente grazie a costosi abbonamenti e a un po' di pubblicità,
escludere lavori basati su inutili crudeltà inflitte agli animali avrebbe
significato cessare completamente le pubblicazioni.
Naturalmente, si può ribattere a queste mie
affermazioni sentenziando che la ricerca, anche quando appare lontana da
applicazioni che appaiono di immediata utilità, conserva un altissimo valore
in sé e certamente garantirà, un domani, il raggiungimento di nuovi
esaltanti traguardi. Ma anche la vita o la sofferenza di una seppur umile
cavia di laboratorio ha un valore in sé. E non mettere in conto questo nel
calcolo costi/benefici che dovrebbe sottintendere la ricerca scientifica è un
metodo inaccettabile. Da questo punto di vista numerosi studiosi di bioetica
stanno facendo sentire la loro voce affinché il raggiungimento di nuove
scoperte scientifiche venga ottenuto con il minimo di sacrificio di animali i
quali - è bene qui sottolinearlo
- non sono venuti al mondo con il
solo scopo di servire l’Uomo.
La
compromissione dell’ambiente
Una pur rapida panoramica del rapporto tra bioetica e
ambiente non può non concludersi accennando al progressivo e apparentemente
inarrestabile degrado che sta investendo il nostro pianeta. Il rapporto che ha
aperto il Vertice Mondiale sull'Alimentazione organizzato dalla FAO a Roma nel
novembre 1996 è eloquente a tale riguardo. Un ambiente sempre più degradato
e ipersfruttato, la progressiva concentrazione dei terreni fertili nelle mani
di sempre più poche persone, condanna alla morte per fame 12 milioni di
bambini ogni anno. Per invertire questa tendenza ci vorrebbero 31 miliardi di
dollari: una cifra certamente ingente ma irrisoria rispetto ai 900 miliardi di
dollari spesi annualmente per le armi. Poi c’è la compromissione
ambientale: inquinamenti, disboscamenti, desertificazione, salinità delle
fonti idriche aggravano una situazione già ora insostenibile. E questa
compromissione ambientale sta aggravando l’esposizione finanziaria del Terzo
Mondo nei confronti dei paesi ricchi come e' il caso dei paesi dell'America
Latina che arrivano a spendere dal 2 al 3 per cento del loro non certo florido
Prodotto Nazionale Lordo per far fronte alle emergenze determinate dalla
compromissione ambientale o della Repubblica Popolare Cinese nella quale il
15% del Prodotto Nazionale Lordo deve essere speso annualmente per contrastare
il progressivo degrado territoriale. E se si pensa che, per far fronte a
questa situazione, buona parte dei paesi poveri non trova altra soluzione che
vendere ai paesi ricchi le proprie risorse naturali (cosi' come e' stato ieri
per le foreste dell'Indonesia o del Borneo e oggi per l'Amazzonia), producendo
cosi' un ulteriore degrado ambientale, lo scenario per i prossimi anni non
potrà che apparire tenebroso.
L'elencazione dei problemi ecologici che assillano
l'intero pianeta potrebbe
continuare a lungo ed evidenzia l’incongruità di un dibattito etico che non
tenga conto delle straordinarie distanze non tanto geografiche, quanto sociali
ed economiche, che dividono il mondo industrializzato, in cui forse maggiore
e' la consapevolezza della necessita' di una ridefinizione del nostro rapporto
con l'ambiente, dal cosiddetto Terzo Mondo. Non abbiamo qui la pretesa di
elencare soluzioni per situazioni così complesse e drammatiche, ma il nostro
ruolo di scienziati ci impone una riflessione. Spesso la Scienza è stata
chiamata dal potere per trovare soluzioni a problemi che nascevano da problemi
d’ordine sociale e politico. Quasi sempre lo scienziato sì è limitato ad
industriarsi per risolvere il problema che gli veniva posto senza domandarsi
se altre soluzioni, magari meno prestigiose dal punto di vista accademico,
avrebbero potuto risolvere la questione con costi e rischi infinitamente
minori. Basti pensare alla manipolazione del germoplasma dei vegetali con il
quale si sperava di trovare una soluzione all’accaparramento delle terre
fertili da parte dei latifondisti nei paesi del Terzo Mondo o alla ricerca di
nuove fonti di energia spesso necessarie per alimentare una società che
dilapidava gran parte di questa per produrre merci sostanzialmente superflue e
destinate, ben presto, ad intasare qualche discarica. In altri casi, è stato
chiesto allo scienziato di indirizzare le sue ricerche esclusivamente nel
soddisfacimento delle richieste di quella parte dell’umanità disposta a
pagare. Purtroppo, di fronte a queste imposizioni la risposta del mondo
scientifico è stata debole. E’ necessario quindi un ripensamento sul nostro
ruolo di scienziati.
Nel momento in cui tendenze oscurantiste o dogmatismi
pseudoreligiosi tendono a soffocare la libertà di ricerca è fondamentale
ribadire la nostra autonomia che non significa certo arbitrio o protervia ma
deve coniugarsi con un sempre più forte sentimento di responsabilità nei
confronti della società e dell’ambiente. Due termini questi non in
competizione ma che possono e devono essere tutelati alla stessa misura.
Resta, comunque, l’esigenza di gestire le inaudite potenzialità che la
ricerca scientifica, in primo luogo le biotecnologie, pongono nelle nostre
mani e che potrebbero determinare nell’ambiente sia scenari radiosi che
catastrofi. Spesso quando si parla dei rischi della scienza, si ricorda
un'antichissima leggenda tramandataci da Esiodo: Zeus, irato contro Prometeo
che aveva osato rubargli il segreto del fuoco, decise di punire l'umanità
attraverso Pandora alla quale consegnò un vaso dove erano rinchiusi tutti i
mali del mondo ordinandole di non aprirlo mai. Ma la curiosità di conoscere
fu più forte della prudenza e Pandora ruppe il vaso. Fu così che,
irreparabilmente, i mali si sparsero sulla Terra. E' questa l'umiliante
lezione che dovrebbe trarre l'umanità? Mettere fine al suo innato desiderio
di conoscenza in nome della paura? Probabilmente si tratta di una strada
impraticabile. Meglio, forse, ridurre al minimo le distanze tra chi fa ricerca
e chi dovrà subirne le conseguenze; aprire alla gente i laboratori di ricerca
e le torri d'avorio del Sapere per poter decidere tutti insieme cosa fare, e a
qual prezzo. Da questo punto di vista la bioetica deve abbandonare il chiuso
degli “addetti ai lavori” e delle Commissioni per diventare patrimonio di
conoscenza e di dibattito per tutti noi.