GIULIO TARRO
Eutanasia ed accanimento terapeutico
INCONTRO DI
BIOETICA
San Romano Salone Mediceo Convento Francescano
Il concetto di “buona morte”
In questi ultimi anni
non pochi studiosi, hanno evidenziato come in un'epoca in cui l'idea dominante
è quella di prolungare la giovinezza e la vita in una condizione di piacere e
di benessere, la malattia, la vecchiaia, ma soprattutto il dolore e la morte
siano fonte di orrore perché appaiono come esperienze cariche di significati
esclusivamente deprivanti e negativi. Esiste quindi antropologicamente e
culturalmente nella nostra epoca, un'incapacità ad accettare il limite
biologico ed esistenziale della vita umana, che rende particolarmente difficile
il compito di rendere il più possibile sereno la parte finale
dell'esistenza. In questo senso deve essere inquadrato il dibattito che si sta
sviluppando tra medici e filosofi sulla questione dell’eutanasia e che sta
dividendo in due “schieramenti” opposti l’opinione pubblica. .
Secondo un’indagine
demoscopica effettuata nel 1998, infatti esisterebbe nei riguardi di una
legislazione che contemplerebbe l’eutanasia un 37% di soggetti contrari, un
26% di favorevoli e un 37% di incerti (probabilmente in fase di riflessione),
che potrebbe modificare profondamente l'esito della eventuale consultazione
popolare che si prospetta a breve scadenza su questo delicato problema. E'
interessante notare che anche fra gli intervistati che si dichiarano cattolici
vi è una discreta percentuale (15%) favorevole all'eutanasia e, in effetti, il
concetto di qualità della vita, ormai prevalente nella cultura postmoderna,
rende assai problematico attribuire un senso alla sofferenza e al dolore al di
fuori di una prospettiva di guarigione.
In una prospettiva
antropologica il modello di rappresentazione della morte nella nostra società
si oppone radicalmente a qualsiasi modello precedente. Nelle culture
precapitalistiche la presenza della morte occupa un posto centrale. Nella
cultura contadina, come nelle culture non occidentali, la vita e la morte sono
percepite, anzi, come forme diverse di una stessa condizione umana. I due
termini si compenetrano nella realtà, come nei simboli. Già da bambini si è
in qualche modo educati all'idea della morte: la morte ha i suoi luoghi, i suoi
segni, le sue cerimonie. In questo tipo di società la "buona morte"
è la morte considerata "naturale": da anziani, nel proprio letto,
circondati da parenti, dopo aver "messo ordine" in tutte le proprie
cose terrene. Nella cultura precapitalistica la morte, quando è “buona
morte” non fa paura; quel che si teme è piuttosto la “mala morte”, da
sempre imputata a cause innaturali, a volontà esterne, che alterano il giusto
andamento delle cose, il tempo e il luogo giusto per morire.
La storia della
rappresentazione della morte nella società occidentale industriale è, invece,
la progressiva elaborazione ed rafforzamento del modello opposto. Senza scendere
in particolari, è la storia della progressiva riduzione degli spazi di presenza
della morte. La nostra società vive fra le tante questa contraddizione: è
certo il tipo di società che più produce morte "innaturale", per
velocità, per gioia effimera, per violenza, ma è, al tempo stesso, la società
che più rifiuta l'idea della morte, che più ne è terrorizzata ed
ossessionata. L'ideale produttivistico dominante è vivere come se la morte non
dovesse mai giungere. E' interessante, ad esempio, notare come in Francia tra il
1955 ed il 1975 l'uso di fare testamento sia diminuito del 200% circa. Questa
separazione netta della vita dalla morte e questa negazione della morte,
accompagnano tutta la vicenda dello sviluppo della società industriale. La
morte è progressivamente confinata e rimossa sia a livello individuale, che a
livello sociale. A livello individuale diversi studi di psicoanalisi hanno
largamente dimostrato quanto siano oggi raffinati e moltiplicati i meccanismi di
rimozione dell'idea della nostra stessa morte.
I due modelli culturali
di rappresentazione della morte sembrano per certi versi opposti. La buona
morte, la morte che i più oggi vorrebbero, è probabilmente proprio la
"mala morte" delle società che hanno preceduto la nostra: una morte
improvvisa, imprevista, per la quale non può esistere nè un luogo, né un
tempo adatti. E' in questo contesto culturale del rifiuto dell'idea di morte che
si pone il problema dell'eutanasia ed in effetti solo in questo contesto il
problema poteva dispiegarsi completamente. Per meglio dire, l'attualità del
problema dell'eutanasia ci sembra prodotto dall'incontro di due fattori: da un
lato dall'estensione della cultura produttivistica, dall'altro dai progressi
della medicina in questi ultimi anni.
Questi due fattori
possono ed anzi spesso entrano in contrasto tra loro. Lo stesso prolungamento
della vita umana, l'aumento percentuale della popolazione anziana, è la forma
più tenue di questo contrasto; la possibilità di prolungare anche per lunghi,
dispendiosi periodi, la fase terminale della malattia mortale, ne è la forma più
estrema. Da un punto di vista produttivo in ambedue i casi si tratta di una
dispersione di energie. Non vogliamo certo schiacciare sul piano
economico-produttivo le ragioni dei sostenitori dell'eutanasia. Come abbiamo
visto, queste ragioni sono molto più complesse ed articolate; vogliamo solo
sottolineare come questo sia uno dei casi nei quali lo sviluppo della scienza
sarà costretto a fare i conti con l'ambiente di valori che più o meno
direttamente lo ha prodotto. E'
facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali
la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale;
questi potrà allora costituire davvero un problema economico, molto più di
quanto oggi non sia. Allora si tratterà di fare una scelta e sarà
principalmente una scelta di valori.
Ci si può augurare che
questi valori in ogni caso salvaguardino la dignità e la stessa libertà
dell'uomo. Le scelte che si faranno saranno, infatti, espressione dei diversi
possibili modi di intendere il potere: quello del medico nei confronti del
malato, come quello della società nei confronti dell'individuo e dell'uomo
politico nei confronti del cittadino.
Sotto certi aspetti,
sul problema dell'eutanasia passiva, le opinioni sono meno distanti di quanto
possa apparire: si concorda nel rifiutare il cosiddetto "accanimento
terapeutico", nel rifiutare, cioè, l'artificiale mantenimento in vita del
malato decerebrato irreversibilmente; si concorda nell'opinione, che già fu di
Pio XII, sulla legittimità di somministrare al malato all'avvicinarsi della
morte farmaci narcotizzanti, anche se si può prevedere che l'uso di tali
farmaci abbrevi la vita.
Le opinioni diventano,
invece, sempre più divergenti quando si discute sull'opportunità di
regolamentare per legge questa forma, anche, ristretta, di eutanasia passiva;
sulla prospettiva di estendere la sua ammissibilità, seppure per comprensibili
motivi di pietà verso il malato terminale; sull'eutanasia attiva. Ma riportiamo
sinteticamente i motivi pro e contro la regolamentazione per legge
dell'eutanasia passiva, così come sono emersi dai più rappresentativi
interventi del dibattito in corso. Ricordiamo che per “eutanasia passiva”,
od “omissiva”, si intende la soppressione dell'ammalato, o la accelerazione
della morte dell'ammalato, ormai ritenuta inevitabile ed imminente (fase
terminale), in base alle indicazioni di una vasta casistica, attraverso
l'omissione, o l'interruzione di interventi terapeutici atti al prolungamento
della vita. “Eutanasia attiva” implica, invece, un atto consapevolmente teso
ad abbreviare o mettere fine alla vita del malato destinato a morire, o che si
trovi in particolari condizioni di sofferenza fisica.
I
principali argomenti a favore di una disciplina per legge dell'eutanasia passiva
sono:
§
L'eutanasia
passiva è una pratica pietosa ormai diffusa; una sua regolamentazione la
sottrarrebbe all'arbitrio del medico, o dei parenti del malato.
§
La
regolamentazione dell'eutanasia passiva libererebbe il medico dall'illegalità
di un atto più diffuso, per ammissione degli stessi medici, di quanto si possa
pensare.
§
Una chiara
normativa sull'eutanasia permetterebbe alla magistratura di operare su basi
giuridiche più sicure ed omogenee.
§
Ognuno ha il
diritto di decidere sulla propria morte e di morire con dignità.
§
Il costo dei
malati terminali incide pesantemente sulla struttura sanitaria, sottraendo
risorse che potrebbero essere destinate a malati curabili.
§
La possibilità
di "controllare" la morte dei malati terminali permetterebbe di
aumentare la disponibilità di organi per i trapianti.
I principali argomenti contro la disciplina per legge dell'eutanasia
passiva sono:
§
Una
legalizzazione dell'eutanasia passiva produrrebbe in breve un'epidemia della
"buona morte", di cui sarebbe impossibile controllare l'estensione.
§
La struttura
sanitaria, già di per sè carente, si sentirebbe sollevata dall'impegno di
prolungare al massimo la vita del malato, con il rischio di un assenteismo
terapeutico di massa.
§
Se si tratta di
interrompere il prolungamento artificiale della vita in condizioni di estrema
sofferenza non c'è bisogno di una legge: questa è pratica medica diffusa ed
ammessa dalla morale. Una legislazione dell'eutanasia passiva nasconde in realtà
il tentativo, o per lo meno il rischio, di un'estensione di questa pratica fino
ed oltre i confini con l'eutanasia attiva.
§
Chi può decidere
sull'opportunità di "eutanasiare" il malato? Se è lo stesso malato a
decidere con la necessaria lucidità mentale non si tratta evidentemente di un
caso di applicabilità dell'eutanasia, ma di "suicidio". Se la
decisione spetta ai parenti, come garantirsi che questa decisione non nasconda
interessi di altro tipo? Se deve essere il medico a decidere, come evitare
errori, comportamenti diversi ed, anche in questo caso, interessi diversi da
quelli del malato?
§
E' provato che la
sperimentazione terapeutica e gli sforzi compiuti per dar soccorso ai malati
marginali hanno permesso molte volte di far avanzare la ricerca scientifica.
§
Le nuove terapie
di rianimazione e in genere gli sviluppi, anche in tempi brevi, delle terapie
della farmacologia, rendono quando mai difficoltosa la definizione di malato
terminale.
Abbiamo appositamente
lasciato fuori da questa rassegna di motivazioni pro e contro gli argomenti di
tipo morale e religioso. Su questo piano le due diverse posizioni potrebbero così
riassumersi: per un verso, la sacralità della vita umana impegna al suo
rispetto totale anche nei suoi momenti terminali e più difficili; per altro
verso, è diritto dell'uomo morire con "dignità", non offrire lo
spettacolo del suo disfarsi morale e fisico. In realtà, come abbiamo detto, la
linea di demarcazione non divide nettamente il mondo cattolico e quello laico:
il mondo laico è ulteriormente diviso e dubbioso al suo interno e anche fra i
cattolici si possono trovare posizioni più o meno sfumate.
Il motivo morale dei
due campi di opinione è in fondo il medesimo: salvaguardare la dignità della
vita umana. Né, per altro verso, si mette in discussione la legittimità dei
diversi fondamenti antropologici di questa "dignità". Quel che il
mondo cattolico contesta all'opinione laica è piuttosto la tendenza a scivolare
da una visione laica ad una visione produttivistica della vita e dell'uomo. Da
parte sua il mondo laico vede nelle posizioni del mondo cattolico, il pericolo
di passare dalla difesa della vita ad una esaltazione del dolore in sè, come
estrema testimonianza.
La questione sulla
liceità dell’eutanasia sta investendo pesantemente il mondo medico come
dimostrato da quanto sta accadendo oltreoceano. Verso la fine del corrente anno,
infatti, la Corte Suprema degli
Stati Uniti dovrà decidere sulla legittimità costituzionale di due leggi,
degli Stati di Wastington e di New York, che proibiscono ai medici di mettere in
condizione pazienti terminali di commettere un suicidio. In caso di decisione
favorevole la norma si estenderà a 12 Stati comprendenti più della metà della
popolazione degli Stati Uniti ed è probabile che il meccanismo si estenderà
all'intero Paese. Ne consegue che i medici non potranno più venir incriminati
come il famoso Dottor Morte (Jack Kevorkian), che dal 1990 ha praticato 44
suicidi assistiti venendo assolto ben tre volte da giurie di Stati
"proibizionisti" (solo l'Oregon ha una legislazione permissiva che è,
tuttavia, sotto giudizio di appello). I rappresentanti ufficiali di classe
medica sono contrari, ma la maggioranza dei medici o almeno più della metà è
favorevole insieme ai tre quarti della popolazione. I sostenitori della
legalizzazione presentano diversi argomenti fra i quali: La priorità delle
scelte autonome da parte del malato, priorità che ha dato luogo alla
introduzione del consenso informato. Una percentuale di decessi avviene con
sofferenze notevoli: se oggi le terapie antidolore hanno fatto molti progressi,
vi sono altri sintomi come il vomito, la dispnea e la estrema debolezza contro i
quali non si possiedono armi adeguate. Per non parlare della incontinenza e di
altre manifestazioni che offendono la dignità del morente. Esistono poi
differenze fra l'interruzione di trattamenti rianimatori intensivi per espresso
desiderio del paziente in quanto il ruolo del medico è passivo limitandosi a
lasciare che la malattia faccia il suo corso e la "attività" del
sanitario che, sia pure con il consenso dell'interessato o di un familiare,
determina direttamente la morte o fornisce al paziente/familiari i mezzi e le
istruzioni per farlo.
Ma
i sostenitori del suicidio assistito contestano questa differenziazione
sostanzialmente centrata solo sul ruolo del medico. Al contrario, mentre nel
suicidio assistito il paziente è attivo e cosciente, quando si interrompono i
meccanismi che lo mantengono in vita quasi sempre è comunque passivo. Inoltre
non possono mancare abusi, sopraffazioni da parte di familiari interessati
all'eredità. Un ultimo aspetto. Può, in effetti determinarsi un fattore: la
"grave depressione" del paziente, che il medico potrebbe curare invece
di aiutare nell'intento suicida; ma sono le condizioni cliniche generali che
dovrebbero consentire una differenziazione.
Naturalmente
nell'affermazione della legittimità del suicidio assistito non potrebbe mai
seguire una sorta di obbligo morale per il medico, essendo ovvia l'obiezione di
coscienza per chi comunque ritenga essenziale il principio dell'arte sanitaria
di portare la vita e non la morte. Piuttosto, il dibattito ha richiamato
l'attenzione sulle carenze dell'assistenza terminale e sulle barriere di natura
socio-culturale ed economica che escludono molti pazienti dal poter usufruire
delle terapie palliative.
A
partire dagli anni Sessanta il dibattito sull'eutanasia si è sviluppato con
intensità crescente, prima negli USA ed in seguito in Europa, in Svizzera, in
Francia, in Olanda, in Italia. Il tema emerge con forza negli Stati Uniti nei
primi anni Settanta, quando quaranta personalità della cultura e della scienza,
fra cui diversi premi Nobel, firmano un Manifesto a favore dell'eutanasia. Nel
1977 sono già otto gli Stati dell'Unione che hanno legiferato in questo senso e
nello stesso anno il Cantone di Zurigo approva, con referendum favorevole,
l'eutanasia. Nel marzo del 1986 l'Associazione Medica Americana (AMA) dichiara
umanamente e giuridicamente lecita la pratica dell'eutanasia passiva, proponendo
di quest'ultima un'accezione estensiva e mettendo così per la prima volta
formalmente in discussione il principio cardine del tradizionale codice
deontologico del medico.
Il caso svizzero
costituisce, tuttavia, un'eccezione in Europa. In Francia, Spagna, Belgio,
Irlanda, Lussemburgo, l'eutanasia passiva equivale ad un omicidio. In Austria,
in Grecia, nei paesi Scandinavi, in Germania Federale, l'"omicidio
consenziente" viene giudicato come un caso a parte, ma, tuttavia, punibile.
Nella stessa Olanda, dove il movimento di idee favorevole all'eutanasia passiva
è più forte, il progetto di legge che prevede la depenalizzazione
dell'eutanasia ha provocato l'opposizione del Consiglio di Stato. Proprio nel
Gennaio di quest'anno i rappresentanti dell'Ordine dei Medici dei Paesi
comunitari hanno elaborato la contestatissima “Guida europea di etica
medica”, secondo cui “in nessun caso il medico, anche quando ciò fosse
richiesto dal paziente, o dai suoi familiari, deve attuare mezzi atti ad
abbreviare la vita del malato”.
Come già detto un caso
a sé nella situazione europea è dato dall’Olanda dove eutanasia e suicidio
assistito ricadono sotto il Codice Penale per cui i relativi decessi vanno
notificati alla Procura come “morti non naturali”, ma il medico non viene
perseguito se può dimostrare di aver agito secondo i principi della pratica
“prudente”. Prima degli anni '80 i casi notificati si contavano sulla punta
delle dita; nel 1993 sono stati ben 1318. Elaborando i dati provenienti dalle
province del nord (2,3 milioni di abitanti) nel periodo 1984-93 sulla base delle
ordinanze del Pubblico Ministero con la relativa documentazione (dichiarazione
del curante, referto del medico legale, e spesso un secondo parere clinico nonché
il testamento dell'interessato), è risultato che la maggioranza dei 1707 casi
notificati erano provenienti da medici di medicina generale (74%) con un 26% da
specialisti. La maggioranza dei pazienti era di sesso maschile (57%) e la età
media 62 anni per gli uomini e 65 per le donne. Il cancro nelle sue varie forme
costituiva la causa prima, seguito dall'AIDS (rispettivamente, 78% e 9%); in
quest'ultimo gruppo di malati la percentuale di casi di eutanasia era la più
elevata rispetto al totale dei decessi con la stessa diagnosi (13,4%), seguita
dalla sclerosi multipla (5,30%) e sclerosi laterale amiotrofica (4,08%). Sul
totale dei morti per tumore più bassa è stata la quota di coloro che hanno
chiesto il suicidio assistito (2,026%). Naturalmente tutti questi dati si
riferiscono ai casi che vengono denunciati e probabilmente rappresentano una
sottostima; all'aumento delle notificazioni nel tempo ha concorso sia
l'incremento delle richieste da parte dei pazienti e dei familiari sia la
maggiore tendenza alla rivelazione dell'atto eutanasico da parte dei medici.
Appaiono comunque interessanti i dai relativi alle cause che hanno portato alla
richiesta, ed è fuor di dubbio che l'ineluttabilità del decorso progressivo
dell'AIDS, la cronicità e progressività dei quadri clinici delle neuropatie
succitate possono giustificare l'atteggiamento dei medici.
In Italia al centro del
dibattito vi è una proposta di legge che si riallaccia a quella presentata
dall'On. Loris Fortuna nel lontano 1984 e che ha costituito elemento cardine di
discussione nei Convegni di Rieti (gennaio 1996), di Pontremoli-Firenze (dic.1996)
e nel recentissimo convegno “Dignità del morire” tenutosi a Venezia dal 30
settembre al 2 ottobre 1998. In questa fase del dibattito sembra prematuro
definire gli orientamenti favorevoli o contrari alla regolamentazione per legge
dell'eutanasia passiva: nettamente contrario, tuttavia, il mondo cattolico, ma
anche esponenti della cultura laica o Associazioni mediche (come l'Associazione
ligure degli Anestesisti); favorevoli numerosi parlamentari, ma anche
rappresentanti delle Chiese Protestanti e medici di ispirazione cattolica.
La proposta di legge
prevede, all'art. 1 che "i medici sono dispensati dal sottoporre a terapie
di sostenta-mento vitale qualsiasi persona che versi in condizioni terminali,
salvo che la stessa vi abbia comunque personalmente e consapevolmente
consentito". Gli altri sette articoli della proposta si soffermano, poi,
sui modi per accertare le condizioni terminali del paziente, sulle disposizioni
scritte del medico per l'interruzione della terapia e su chi è legittimato ad
opporsi alla decisione.
Si comprende facilmente
quanto sarebbero ampi gli spazi per praticare l'eutanasia che l'approvazione
della proposta dischiuderebbe anche nel nostro Paese. Il problema così
riacquista attualità e divide profondamente i partecipanti al dibattito. Dopo
l'approvazione a Parigi della nuova "Guida europea di etica medica",
c'è da supporre che altre proposte si aggiungeranno, riproponendo in sede
parlamentare modifiche incisive del nostro codice penale e di tutta la nostra
legislazione sanitaria.
Come è noto, il nostro
ordinamento punisce sia l'omicidio del consenziente sia l'istigazione, o l'aiuto
al suicidio. Il diritto alla salute viene, poi, visto come interesse del
cittadino nel contesto sociale ed in contrapposizione all'interesse di questo.
L'articolazione della protezione è quindi ampia. Tutta la legislazione
sanitaria contiene, infatti, norme di carattere penale e civile e inquadra il
diritto alla salute in uno scenario sempre più ampio rispetto a quello iniziale
di diritto all'integrità fisica. Oltre ai doveri imposti dalle norme
dell'ordinamento giuridico, i medici sono tenuti a rispettare i Codici di
deontologia e le prescrizioni dell'etica professionale imposti dalla tradizione.
Secondo alcuni studiosi, esiste, del resto, una colpa del medico che trascuri di
aggiornarsi e di seguire il progresso scientifico, se da tale comportamento
derivano danni ai pazienti per grave incuria ed ignoranza delle norme tecniche.
E, secondo la dottrina, la diagnosi data dal medico determina responsabilità
dello stesso se sia causa di una cura sbagliata, o di un'omissione di cure che
danneggi la salute del paziente. La giurisprudenza, a dire il vero, appare, però,
varia e contrastante nel valutare in concreto la responsabilità del medico
citato in giudizio.
A questi orientamenti
protettivi del paziente, rilevabili nella nostra legislazione sanitaria, vanno
aggiunte talune scelte fondamentali della nostra Costituzione. Da essa si può
infatti evincere che la legge in nessun caso può violare i limiti imposti dal
rispetto della persona; una prescrizione questa che acquista un rilevante valore
quando il precario stato di salute del paziente rende il soggetto
particolarmente debole e meritevole di più attenta protezione.
Anche se mancano
articolati ed approfonditi esami delle decisioni della Corte Costituzionale in
materia - e in particolare sull'interpretazione da essa data all'art. 32 - si
ammette, per lo più, la possibilità di rendere obbligatori i trattamenti
sanitari. Tale obbligatorietà va intesa nel senso che i trattamenti sanitari
possono anche escludere il consenso del singolo per talune pratiche sanitarie,
sempre però che l'intervento sia veramente necessario per la tutela generale
della salute della collettività.
Sia lo spirito della nostra Carta fondamentale, sia l'opportunità reale e
concreta della difesa dell'interesse collettivo portano ad escludere che nel
caso dell'eutanasia possano invocarsi esigenze di carattere generale a suo
favore, a meno che non si voglia valutare il problema in termini di costi
economici, di carenze delle strutture sanitarie, di inutilità degli sforzi; in
un quadro, cioè, che trascuri valori importanti di una concezione della vita di
profondo ed ampio significato umano.
Una cosa, tuttavia, è
discutere del problema dell'eutanasia, o di situazioni che presentano analogia
con questa, in termini di stretta giuridicità, sul piano dei valori morali, o
delle responsabilità civili e penali in cui si può incorrere, una cosa,
apparentemente uguale e conseguenziale, ma sostanzialmente diversa, è valutarlo
ed in tempi brevi quando tale problema si presenta nel momento operativo, con un
paziente, cioè, che si trova nello stadio terminale e per il quale va deciso il
tipo di assistenza da prestare. In termini concreti, infatti, non è uguale
comportamento permettere che al malato vengano sospese le terapie quando le
stesse non appaiono più efficaci e consentire invece di sottrarre, al paziente
che soffre troppo, o si ipotizza già allo stadio terminale, cure che si possono
in alcuni casi dimostrare utili. Nel primo esempio non si pregiudica la vita (si
pensi a un malato terminale con un organismo devastato da un tumore) ed il
problema merita piuttosto maggiore attenzione sul piano dell'affinamento della
terapia del dolore; nel secondo caso di irreversibilità della malattia si può
parlare solo a posteriori. Occorre certo, anche nell'ultimo caso, stabilire in
concreto se rinunziando all'inutile accanimento terapeutico si possa configurare
sul piano giuridico e su quello morale una scelta a favore dell'eutanasia, o la
pratica attuazione della stessa.
Non può essere
indifferente per il diritto se qualcuno opera in modo da anticipare la morte
altrui, interrompendo così una vita, una esistenza che, sia sul piano giuridico
sia sul piano morale, non é ammissibile che sia troncata finché esiste.
Staccare il tubo, girare, o far girare la chiavetta del respiratore artificiale,
prescrivere certi medicinali invece di altri significa far qualcosa di più che
tenere un comportamento passivo. Anche quando però ci troviamo di fronte ad un
volontario rifiuto di assicurare le terapie necessarie alla sopravvivenza per
affrettare la morte, il confine fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva
diventa spesso incerto e discutibile, sicuramente illecito alla luce della
nostra attuale normativa.
Se il legislatore
ordinario si trova spesso ad inseguire con fatica il progresso della scienza
medica e non solo quello, se appaiono inadeguate le norme in materia di
fecondazione artificiale, o di ingegneria genetica, se tutti questi vuoti
legislativi penalizzano indiscriminatamente soggetti meritevoli di maggiore
protezione, se la Guida medica europea scatena una tempesta sull'eutanasia, fa
sorgere molte perplessità e non elimina del tutto i dubbi, tutto questo sta a
dimostrare sempre più che pazienti e medici non possono venire lasciati soli
quando debbono decidere sulla vita propria ed altrui, ma vanno confortati e
guidati da chiare norme regolanti materie che rappresentano sicuramente una
riserva della legge. Il diritto positivo deve affiancarsi quindi a quella legge
morale che chiamiamo diritto naturale, per meglio chiarire il significato della
vita e l'importanza della sua conservazione e protezione. La legge può però
entrare dettagliatamente nel mondo della medicina, senza creare scompiglio e
malessere? Può sostituirsi all'etica tradizionale del medico senza sconvolgere
i suoi canoni di comportamento? Può inseguire in astratto il concreto ed
incessante sviluppo della medicina per delimitare il confine fra il lecito e
l'illecito? Può assicurare un quadro legislativo affidabile agli utenti del
servizio sanitario? Il nostro legislatore non è certo preparato ad uno sforzo
di tale ampiezza e complessità e non ha forse nemmeno le idee molto chiare
sugli obiettivi a cui puntare.
Pure farebbe bene a
ribadire con fermezza alcuni principi fondamentali del giusnaturalismo, come
quello dell'importanza della tutela della vita e farebbe meglio a rimboccarsi le
maniche per eliminare i ritardi legislativi finora accumulati in questo come in
molti altri campi del suo operare.
Quali ostacoli potrebbe incontrare nel momento tecnico delle scelte normative?
Quali conflitti di competenza potrebbero sorgere con altri organi
costituzionali? Esiste intanto il dubbio se l'art. 117 della Costituzione, che
fa rientrare la competenza delle regioni anche nel campo dell'assistenza
sanitaria ed ospedaliera, intenda affiancare per queste materie alla riserva di
legge statale una, sia pur più limitata, riserva di legge regionale. Molti
studiosi ritengono che la materia possa essere regolata solo con legge dello
Stato, intendendosi a loro parere lo spazio regionale circoscritto ad interventi
sull'apparato organizzativo-burocratico e programmatico del settore sanitario.
Tuttavia, anche superando questo ostacolo, le difficoltà restano e sono tante.
Disciplinare con legge
persino l'uso delle terapie oltre che anacronistico non appare opportuno, sia
perché si tratta di settori dove l'innovazione è notevole, sia perchè i
singoli casi si presentano con caratteristiche particolari e diventerebbe
pertanto difficile inquadrarli nella griglia della legge, sia perchè questo da
solo non servirebbe per favorire il radicarsi di una cultura omogenea sull'uso
delle terapie, cultura che, a detta di molti, è più necessaria della stessa
legge.
Se è pertanto da
sconsigliare la disciplina particolareggiata del problema con provvedimenti di
legge formale, è invece da incoraggiare il nascere e il rafforzarsi di una
regolamentazione specifica che affronti le situazioni concrete che si possano
verificare e sia di orientamento per il personale sanitario tutto e di
trasparenza e di controllo interno ed esterno sul funzionamento delle strutture
e sul comportamento degli operatori. Ne guadagnerebbero la qualità del servizio
e l'intensità dell'uso delle apparecchiature. Una tale normativa potrebbe
articolarsi in un regolamento governativo organico ed avanzato, che vada ad
inquadrare l'intera tematica e sia poi di ausilio ai più specifici e
particolareggiati regolamenti delle regioni e delle autorità sanitarie locali.
Se a questi fermenti
normativi, tutti ancora da pungolare e definire, si aggiungessero scelte
concrete di più attenti criteri di gestione economica delle strutture sanitarie
e delle risorse umane e maggiore sensibilità del personale medico e paramedico,
si potrebbe avere una piccola rivoluzione sanitaria silenziosa, ma incisiva; una
rivoluzione che potrebbe in termini diversi dagli attuali, anche sul piano dei
costi economici, prevedere le esigenze di quanti si trovano nello stato
terminale della vita.
Un aspetto che spesso
non viene tenuto nella sua giusta considerazione nel dibattito pro o contro
l’eutanasia è data dallo stato nel nostro paese delle terapie antidolore o
palliative delle quali posono giovarsi i malati terminali di cancro. Da questo
punto di vista la situazione in Italia è certamente insoddisfacente e troppo
pochi sono gli analgesici stupefacenti in circolazione nel nostro Paese e troppi
gli ostacoli al loro impiego grazie a una legge capestro (numero 686/75)
concepita per paura dell’abuso; vuoto pressoché totale anche per quanto
riguarda strutture sul tipo degli “Hospices” inglesi o delle “Pain Clinics”
americane dove il malato terminale può
giovarsi, se non altro, di terapie antidolorifiche.
Tra l’altro va detto
che la nostra medicina è carente quasi totalmente davanti a questo problema.
Oggi malgrado gli enormi progressi scientifici esistono limiti nei quali
l'intento di guarire rimane impossibile e ogni ulteriore sforzo non porta ad
altro che al prolungamento del morire e del soffrire. Questo succede soprattutto
di fronte ad alcune malattie nella loro fase avanzata, come il cancro, l'Aids,
certe situazioni terminali di malattie neurologiche respiratorie e cardiache e
nell'ambito geriatrico. Numerosi studi recenti effettuati sia in America che in
Europa hanno rilevato come anche nelle più moderne e sofisticate istituzioni
ospedaliere un'alta percentuale di malati viene a terminare la vita tra
sofferenze e dolori. Oggi infatti viene riportato che malgrado l'esistenza di
nutrite schiere di esperti di congressi, seminari, il controllo del dolore non
viene preso in considerazione sia negli ospedali che nelle abitazioni.
La dignità della
persona umana finisce quindi per essere calpestata da una mancanza di contatto,
comunicazione, dall'ambiente inadatto in cui il malato viene a morire e dal
fatto che molto spesso queste persone vengono a subire cure inutili, costose,
portatrici di ulteriore sofferenza. Questo quadro della realtà odierna che
esiste anche da noi in Italia è dovuto a una carenza di educazione da parte
degli operatori sanitari verso la morte ed il morire. Mentre nelle nostre scuole
di medicina e in quelle infermieristiche nulla viene insegnato sulla fase del
morire. Questa fase può durare giorni, mesi o anche più di un anno.
Di fronte a questa
situazione la cultura medica rimane legata a trattamenti aggressivi verso il
malato terminale per il fatto che la morte rappresenta sconfitta della medicina
e per ciò si tende a non prendere in considerazione gli aspetti psico-sociali
della malattia. Tutto ciò impedisce il sorgere di quelle attitudini che formano
le basi di un'attenzione professionale e compassionevole verso il morente. È
necessario un insegnamento sulla vita del morente localizzato al controllo delle
percezioni di sofferenza, cioè del dolore, quasi sempre presente e degli altri
penosi sintomi. Questo controllo deve essere offerto con un approccio umano
verso il malato e la famiglia. È necessario un insegnamento sulle modalità di
comunicazione di ascolto in questi frangenti non solo con i malati, ma anche con
quelli che gli stanno vicino, e permettetemi di dirlo, è necessario un
approccio atto a rinforzare certi valori spirituali che noi esseri umani teniamo
sopiti soprattutto in quei momenti.
Inoltre vanno insegnate
le capacità di lavoro in équipe pariteticamente con l'infermiera e con la
famiglia verso il malato sia in casa che in ospedale. Queste modalità di
approccio verso il malato terminale vengono chiamate internazionalmente cure
palliative. Palliativo è una parola non piacevole ma che serve a ricordare che
non siamo, né saremo mai onnipotenti sulla nostra salute ma che possiamo sempre
"palliare" cioè coprire e rendere più sopportabili le sofferenze
fino all'ultimo istante di vita.
La stessa
Organizzazione mondiale della Sanità pone fra le priorità nel suo rapporto
sulla salute di quest'anno le Cure palliative e la sua educazione. Quest'educazione
negli ultimi anni è diventata una disciplina che viene ufficialmente insegnata
per formare i nuovi operatori già in alcuni Paesi del mondo sviluppato. In
Inghilterra esistono ben sei cattedre altre esistono in Scandinavia, Nord
America, Australia. Lo stesso esempio sta nascendo anche in Francia e in Belgio.
In Italia la Fondazione Floriani, che da vent'anni opera nel settore dell'aiuto
ai morenti, sia promuovendo assistenza che educazione, lo scorso maggio ha
organizzato un Convegno per portare questo messaggio presso l'Università di
Milano.
Iniziative similari
dovrebbero moltiplicarsi nel nostro Paese in modo da rendere ufficiale la
nascita di questo insegnamento. Solo insegnando a un giovane che diverrà medico
o infermiere e che la medicina non è tesa solo a guarire, che la vita ultima va
circondata dal miglior conforto, solo creando un'educazione capillare nella
scuola e nella famiglia sul diritto ad avere un termine della vita senza
sofferenze e senza emarginazione si potranno migliorare le attuali attitudini e
negligenze che esistono verso i malati terminali nell'ambito sociale e sanitario
nel nostro Paese.