GIULIO TARRO
Scienza e bioetica alleate nella difesa dell’Uomo
Relazione al Convegno
“La vita offesa”
Milano, Casa di Reclusione di Opera
Il ruolo oggi del medico, soprattutto quando egli
si trova ad operare in realtà come il carcere, che vede la presenza di numerosi
detenuti affetti da gravi patologie, quali l’AIDS, pone tutta una serie di
interrogativi etici e deontologici di non facile risoluzione e che costituiscono
uno dei principali filoni della Bioetica. Questa disciplina, uno dei più alti
connubi tra pensiero filosofico e pensiero scientifico, si trova infatti
quotidianamente ad affrontare dilemmi quali il consenso informato del paziente a
determinate terapie, la possibilità di effettuare specifiche cura nell’ambito
carcerario, l’opportunità o meno di controverse politiche finalizzate alla
riduzione del danno prodotto dall’eroina… Questioni certamente difficili,
per analizzare le quali è forse utile una rapida disamina dell’evoluzione del
rapporto tra medico paziente che, fin dai tempi di Ippocrate è stato
conflittuale. Mi sia consentito, a questo punto - rifacendomi a quanto riportato
da uno dei più attenti studiosi della questione, Luca Carra - accennare
brevemente a come si sia andato strutturandosi tale rapporto. Forse, ad una
prima analisi, l’esposizione di questo percorso potrà apparire avulsa dalla
realtà nella quale oggi il medico, soprattutto quello che interviene nelle
carceri, si trova ad operare; ma se si avrà la pazienza di soffermarsi su
alcuni punti ci si renderà conto che, nonostante i giganteschi progressi della
Medicina, i dilemmi che legano il medico al paziente e alla società restano
sempre gli stessi.
Come è noto, per quanto riguarda l’antichità
classica, il primo documento scritto che attesta l'esistenza di una dimensione
etica in medicina è il giuramento ippocratico, che ancora oggi fa parte della
deontologia del medico. Le parti iniziali e finali del testo, con il riferimento
agli dei e agli effetti del giuramento, rivelano la natura rituale e sacerdotale
della professione medica nell'antica Grecia. I paragrafi che trattano gli
obblighi verso il paziente e la sua famiglia sono invece quelli più
interessanti per comprendere la natura della medicina delle origini e il suo
rapporto con l'etica. Nel giuramento, come in altri testi ippocratici, la
funzione della medicina è quella di fare del bene o quanto meno non nuocere
all'ammalato (Primum non nocere), il
quale non va necessariamente reso partecipe della natura delle terapie. Più in
generale, la medicina appare per la prima volta come una scienza volta a
restaurare il normale corso della natura, astenendosi dal ricorso a forze
soprannaturali. Il medico dovrà, quindi, allearsi con l'ammalato per
sconfiggere il terzo termine della relazione: la malattia. Ogni affermazione del
giuramento rivela ciò che vi è di più intrinseco alla medicina come arte: il
potere del ruolo del guaritore, il carattere paternalistico della relazione
terapeutica, le circostanze tragiche in cui viene esercitata la cura. Da queste
condizioni derivano le prerogative sociali e gli obblighi del medico nei
confronti dei pazienti. Vulnerato nella sua salute, il malato non è in grado di
godere di diritti di fronte a colui che cura. Per questo egli si deve affidare
alla sua arte che si ammanta di poteri sacerdotali.
Prescrizioni etiche tornano più volte nel corso
della storia della medicina in Occidente. Nei medioevali Mandata
et praecepta ecclesiae le regole ippocratiche vengono intrise dal nuovo
umanesimo cristiano, che ha portato alla ribalta i valori della carità e della
vicinanza al sofferente, visto come immagine di Cristo. Nei precetti contenuti
nel De instructione medici (Collectio
Salernitana) si stabilisce che il medico dovrà valersi del sostegno del
confessore, utilizzando le mezze verità e le esortazioni laddove queste possano
migliorare lo stato dell'infirmus. La
medicina diviene, quindi, principalmente esercizio di carità per la
salvaguardia di un bene che non appartiene all'uomo, ma che a esso è stato
donato da Dio. Ma se la vita è sacra, la sofferenza del malato non va
considerata sempre negativamente, come un ostacolo da superare, poiché il
dolore della carne può rivelarsi uno strumento di redenzione e di avvicinamento
alla vera meta dell'uomo che non è la salute, bensì la salvezza. In alcuni
autori della Patrologia latina alto medioevale, come Fulberto di Chartres, ci si
imbatte nella contrapposizione tra la Schola
Salvatoris e la Schola Hippocratis,
con evidenti conseguenze sulla considerazione in cui per alcuni secoli è tenuta
la medicina profana, volta all'illusorio tentativo di ristabilire con mezzi
puramente naturali un ordine biologico in realtà soggetto alla grazia. E' solo
a partire dal dodicesimo secolo che il pensiero cristiano rivaluta la medicina
come dono di Dio e si profilano i primi tentativi di riformulare i precetti
ippocratici in un contesto religioso.
In generale, le morali antiche e medioevali
insistono con diversi accenti sul carattere paternalistico e benefico della
medicina. Un classico esempio di cosa può significare un tipo di cura
incardinata sulla beneficenza religiosa sono le parole di Sant'Antonio da
Firenze (quindicesimo secolo), quando afferma: “Se un uomo malato rifiuta le
medicine che gli vengono prescritte, il medico che è stato chiamato da lui o
dai suoi parenti può curarlo contro la sua volontà, così come una persona
deve essere trascinata fuori, contro la sua volontà, da una casa che sta
crollando”. Fare il bene anche contro la volontà del paziente (principio di
beneficenza assoluta) resta un caposaldo dell'etica medica fino a metà del
secolo ventesimo. Nel suo Medical Ethics
(1803) Sir Thomas Percival scrive che il medico, in qualità di ministro del
malato “deve cercare di comportarsi in modo da fondere la tenerezza con la
fermezza, e la condiscendenza con l'autorità, in modo da ispirare nei suoi
pazienti la gratitudine, il rispetto e la fiducia”. Questa condiscendenza di
tono paternalistico volta al benessere del malato, cioè di una persona che si
trova in una oggettiva condizione di minorità fisica e psicologica, giustifica
talvolta la mezza verità o la menzogna: “Quando un paziente, che forse è un
padre di famiglia numerosa” scrive Percival “o la cui vita è di estrema
importanza per la comunità, fa domande tali che, se il medico desse una
risposta sincera potrebbe ricevere un colpo fatale, sarebbe un errore grave e
impietoso dirgli la verità. Il suo diritto a una risposta sincera è dubbio, se
non inesistente, poiché il naturale beneficio della rivelazione diventerebbe in
questo caso un danno”.
Forme di paternalismo, ancorché attenuato dal
principio generale di veridicità, si trovano nei documenti ufficiali delle
società mediche di tutto il mondo fino agli anni settanta del ventesimo secolo.
Un chiaro superamento di questa opinione si trova nei Principi di etica medica
dell'American Medical Association del 1980, in cui si afferma: “La professione
medica non si concepisce più come l'unica custode della salute pubblica, e di
conseguenza il tradizionale paternalismo di questa professione entra in
conflitto con la società”.
Sette anni dopo i dodici paesi della Comunità
europea si adeguano all'esempio statunitense elaborando i Principi europei di
etica medica, a cui tutti gli ordini medici degli Stati membri devono
uniformarsi. Nel documento si legge, tra l'altro: “Salvo in casi d'urgenza, il
medico deve informare il malato sugli effetti e possibili conseguenze della
cura. Dovrà ottenere il consenso del paziente, soprattutto quando l'intervento
presenti un serio pericolo. Il medico non può sostituire il concetto di qualità
della vita del paziente con il suo personale”. Ai tradizionali concetti di
giustizia e beneficenza si affianca il principio di autonomia, da cui deriva la
necessità di ottenere dal malato il consenso libero e informato sulle terapie e
le sperimentazioni cliniche.
A che cosa si deve questo mutato atteggiamento?
Come può essere spiegata la proliferazione di dilemmi morali irrisolvibili a
priori che concernono non solo l'attività strettamente clinica, ma anche
l'assistenza sanitaria, la vita di relazione, le preferenze sessuali, la vita
riproduttiva? E come far fronte a una problematizzazione così radicale della
sfera biologica? Una delle risposte più convincenti è stata fornita dal
filosofo statunitense Hugo Tristram Engelhardt, nel suo Foundation
of bioethics (tradotto in italiano con il titolo di Manuale di bioetica), quando afferma il carattere politeistico,
tecnologico ed economicistico della società contemporanea rispetto a quelle del
passato.
Se è vero che tutte le società umane hanno
conosciuto il fenomeno della dissidenza e del conflitto di opinioni, è
altrettanto vero che solo nel ventesimo secolo il pluralismo di religioni,
ideologie e tradizioni culturali ha trovato un riconoscimento politico forte in
alcune costituzioni, vista anche l'impossibilità di fondare una morale comune a
tutti su basi trascendenti o puramente razionali. In tutte le società
democratiche, e a maggior ragione in quelle multirazziali, vi è una pluralità
di comunità morali sorrette da regole diverse e spesso in opposizione tra loro.
In una società laica politeista fare del bene a un
altro diventa una faccenda complicata e pericolosa, nel senso che l'atto
benefico per chi lo fa può essere contestato o rigettato da chi lo riceve. Da
qui la necessità, riconosciuta da tutti - anche se con forza e convinzione
diverse - di far valere il principio di autonomia, il cui primo corollario è la
richiesta del consenso informato al soggetto della terapia. Il diritto
all'informazione e il rispetto della libertà del soggetto diventano tanto più
urgenti alla luce delle violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo di cui in
alcuni casi si è macchiata la ricerca clinica.
Tematiche come quelle sopra esposte trovano una
particolare articolazione quando questo dibattito si proietta nell’universo
carcerario.
Com’è noto l'attuale sistema penitenziario
italiano si basa sulla legge n. 354 del 26 luglio 1975, cosiddetto Ordinamento
Penitenziario, e sul D.P.R. n. 431 del 29 aprile 1976, Regolamento di
esecuzione. Attraverso tali normative il nostro paese è riuscito, finalmente, a
conformarsi al dettato costituzionale che, all'art. 27 comma 3°, prevede che
“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato”. L'ordinamento penitenziario
italiano, in conformità al dettato costituzionale e in aderenza ai principi
enunciati nella “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” proclamata
dalla assemblea generale delle Nazioni Unite il 1° dicembre 1948 a New York,
nella “Convenzione europea dei diritti dell'uomo” siglata in Roma il 4
novembre 1950, nel “Patto internazionale sui diritti civili e politici”
approvato dall'assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 1966, ed in
particolare nelle “Regole Minime dell'O.N.U. per il trattamento dei
detenuti” adottate con risoluzione del 1° Congresso delle Nazioni Unite per
la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, in data 30 agosto
1955 e, per ultimo, nelle “Regole Minime del Consiglio d'Europa per il
trattamento dei detenuti” adottate con risoluzione del Comitato del Consiglio
dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 19 gennaio 1973, si articola e si
sviluppa attraverso alcune importanti direttrici: l'espiazione della pena
improntata ai criteri di umanità, salvaguardando la dignità e i diritti
spettanti ad ogni persona; la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento
sociale come scopo principale dell'espiazione della pena; la prevenzione della
criminalità.
Con la legge n. 354 del 26 luglio 1975,
indubbiamente molto attenta e ricettiva alle sperimentazioni e alle tematiche
riguardanti le aree emarginate della nostra società, il detenuto diventa
titolare - oltre che di doveri - anche di diritti. Questa legge - è bene
ricordalo oggi di fronte ad un’opinione pubblica giustamente allarmata da
innumerevoli episodi di micro e macrocriminalità e che in taluni casi richiede
un ritorno alle norme carcerarie risalenti al 1931, se non, addirittura a quelle
del 1891 e del 1862 - ha significato la pressoché totale scomparsa delle
rivolte carcerarie, dei sequestri e degli omicidi in carcere fra detenuti; ha
significato la possibilità di rendere operante quel principio sancito dalla
Costituzione di vedere nel carcere non solo l’espiazione della pena ma anche
una riabilitazione e un reinserimento del detenuto nella società civile.
Ovviamente, secondo le migliori tradizioni italiane, alla legge non ha fatto
seguito l’attivazione di tutte quelle strutture che avrebbero dovute
realizzarla e, per quanto riguarda il campo medico, l’assistenza nelle carceri
risulta ancora oggi insoddisfacente. Una situazione che risulta aggravata dalla
persistente incidenza dell’AIDS tra i detenuti.
In una società come la nostra, nella quale la
realtà viene valutata dallo spazio concessogli dai mass media, occuparsi di
AIDS rischia di essere visto oggi come un inutile esercizio accademico. Infatti,
dopo aver troneggiato per anni dalle prime pagine dei giornali e sugli schermi
televisivi, e dopo aver seminato paure spropositate e comportamenti irrazionali,
la "peste del duemila", (così era stato irresponsabilmente
battezzato l'AIDS) sembrerebbe quasi scomparsa dalle attenzioni dei mass-media
e, quindi, dalle preoccupazioni della gente. Tra la "gente comune"
di AIDS si parla, purtroppo, sempre di meno, quasi come se questo morbo fosse
scomparso o sia destinato a restare confinato tra le categorie a rischio quali
quelle degli omosessuali o degli eroinomani. E’ una situazione piena di
pericoli soprattutto considerando che contro questa infezione, al di là di
nuove combinazioni di farmaci, sicuramente più efficaci di quelli utilizzati
nel passato, la strada per arrivare ad un vaccino o ad una cura risolutiva è
ancora lunga e che, ancora oggi la fondamentale strada per limitare il contagio
è data dalla prevenzione e quindi dalla informazione. E tutto questo mentre -
come nella favola di Pierino e il lupo - risulta sempre più difficile
sensibilizzare un'opinione pubblica che, negli anni passati, ha subito una martellante
e terroristica campagna sulla minaccia AIDS.
Ma vediamo qual è stato finora l'andamento
dell'epidemia nel nostro Paese.
In Italia, la curva dei casi di AIDS iniziò ad
impennarsi nel 1984, e si comprese immediatamente come l'epidemia si fosse
rapidamente diffusa nei tossicodipendenti, soprattutto nelle aree urbane del
Centro-Nord. La disponibilità del test sierologico HIV rese possibile, nel
1985, effettuare indagini che evidenziarono ampie variazioni geografiche: a
Milano, ad esempio, oltre il 50% dei tossicodipendenti risultava infetto, a
Napoli meno del 10%. All'inizio degli anni '90, nel nostro Paese l'AIDS era
diventata la prima causa di morte fra i giovani adulti di sesso maschile e la
seconda fra le donne della stessa età (25-34 anni).
L'andamento del numero dei casi di AIDS segnalati
al Registro Nazionale AIDS (R.N.AIDS), ha confermato il costante incremento
dell'incidenza dei casi di AIDS notificati nel nostro Paese sino al 1995, e ha
permesso di stimare un lieve decremento per il 1996. Nell'ultimo anno, il numero
dei casi di AIDS, è quindi leggermente diminuito, stabilizzandosi su circa 1200
nuovi casi a trimestre. Tende invece ad aumentare costantemente il numero dei
pazienti affetti da AIDS viventi. Se quest’ultimo trend può spiegarsi con il
miglioramento consentito dai farmaci di mantenimento, più problematico è
definire cosa possa avere determinato il rallentamento dell'epidemia.
Sono state formulate a tal riguardo varie ipotesi:
che questo decremento sia dovuto effettivamente alla diminuita incidenza di
nuove infezioni verificatesi nella seconda metà degli anni '80, che l'infezione
creatasi era inferiore a quella stimata, che sia in aumento la sotto notifica
dei casi di AIDS.
Se si osserva più da vicino l'andamento
dell'epidemia, si constata che il numero di nuove infezioni è andato
rapidamente aumentando nella prima metà degli anni '80, raggiungendo un picco
intorno al 1985-87, per poi diminuire e stabilizzarsi ad un livello decisamente
più basso negli anni 1991-93. Se si scorporano poi i dati relativi alla
tossicodipendenza e quelli relativi ai contatti eterosessuali, si osserva che se
per i tossicodipendenti la curva ricalca quella della popolazione in generale,
risulta invece evidente un lento e continuo aumento delle nuove infezioni dovute
a contatto eterosessuale. Sia le indagini gli studi osservazionali che i calcoli
matematici confermano quindi che le stime effettuate nella seconda metà degli
anni '80 erano sicuramente sovrastimate. La domanda che oggi gli esperti si
pongono è quindi se, veramente, l'AIDS non sia più un problema emergente e non
rappresenti più un problema grave in Italia.
Certamente l'AIDS è stata, e tuttora rappresenta,
un'importante causa di mortalità tra i giovani adulti nel nostro Paese e
sicuramente la guardia non va abbassata; bisogna, comunque, evitare gli errori
del passato quando il fenomeno veniva molto sovrastimato creando inutili
allarmismi, allo stesso tempo, però, oggi non bisogna incorrere nell'eccesso
opposto e passare cioè ad un eccessivo ottimismo anche perché nel nostro Paese
il principale "focolaio dell'infezione" è costituito da
tossicodipendenti.
Com'è noto, nella sua prima fase, il virus
dell'AIDS è stato veicolato sostanzialmente da omosessuali maschi
principalmente attraverso le lesioni che generalmente si producono (sul pene o
nell'intestino retto) in un rapporto anale. Successivamente l'infezione ha
finito per privilegiare gli eroinomani poiché molti di essi
"socializzano" il "buco" e cioè utilizzano la stessa
siringa per iniettarsi l'eroina garantendo così, se è infetta la prima persona
che ha utilizzato la siringa, la trasmissione dell'infezione. Per di più non
pochi tossicodipendenti, per procurarsi la quotidiana dose, si prostituiscono,
spesso senza preservativo, garantendo così l'ulteriore diffusione del virus.
A partire dalla seconda metà degli anni "80,
la minaccia rappresentata dall'AIDS ha determinato lo strutturarsi di capillari
campagne di informazione e di educazione che sconsigliavano rapporti sessuali
con partner sconosciuti e/o sull'opportunità di utilizzare il preservativo
mentre agli eroinomani veniva consigliato, quanto meno, di non scambiarsi la
siringa. Varie inchieste e sondaggi hanno dimostrato comunque che queste
campagne hanno prodotto significative modifiche dei comportamenti solo negli
omosessuali, qualche piccola modifica é stata registrata nei costumi di vita
degli eterosessuali (come dimostrato, tra l'altro dalla sostanziale
"tenuta" delle altre malattie a trasmissione sessuale) mentre i
comportamenti a rischio da parte di soggetti eroinomani sono rimasti
sostanzialmente inalterati. Ancora più irrilevanti sono gli effetti delle
campagne di informazione tra eroinomani affetti da sieropositività; basti
pensare che un terzo di questi non avrebbe neanche informato il partner sulla
possibilità del contagio. Questo sostanziale disinteressamento per le norme di
prevenzione ha avuto una sconsolante conferma nell'effettuazione dei test di
sieropositività.
Nonostante questo test sia in Italia assolutamente
anonimo e gratuito, si stima che meno di un quinto degli eroinomani abituali vi
abbia fatto ricorso. Molto probabilmente il perché di ciò é da ricercarsi
sostanzialmente nella rappresentazione della sieropositività come inevitabile
anticamera di un'imminente morte, fatta propria da non pochi mass-media, e che
ha spinto e continua a spingere gli eroinomani infetti a disinteressarsi del
loro stato di salute e dei rischi insiti nel perseverare nei loro comportamenti.
Oltre che all’AIDS, l'epatite rappresenta una
delle principali cause di morbosità tra gli eroinomani. Anche per l'HAV sono
stati osservati casi di infezione associati alla tossicodipendenza. Dato il
breve periodo di viremia (pur non potendosi escludere completamente la
trasmissione parenterale), rimane da spiegare la modalità di trasmissione
dell'agente patogeno ed a questo proposito sono state avanzate alcune ipotesi
quali l'alta incidenza correlata non alla tossicodipendenza in sé, ma alla
scarsa igiene ad essa associata; la contaminazione delle sostanze di abuso
durante la loro produzione, trasporto e preparazione; la contaminazione degli
strumenti di preparazione della dose di eroina.
Ben più frequente è, comunque, l'infezione da HBV
e HDV che sono da considerarsi endemiche nella popolazione dei
tossicodipendenti. Anche l'HCV è ampiamente diffuso in questa categoria,
facendo registrare tassi di positività dal 60 al 90%, contro una
sieroprevalenza nelle popolazioni occidentali stimata fra 0,1 e 1,7%. E’ da
sottolineare che l'epatite C si presenta, spesso, in forma pauciasintomatica ed
è nota la tendenza ad evolvere in epatite cronica (50%), in cirrosi epatica
(20%) ed in epatocarcinoma (il 5% dei cirrotici C-correlati sviluppa ogni anno
epatocarcinoma); è da ricordare, inoltre, che gli anticorpi anti HCV non hanno
effetto protettivo.
Tra il 1975 e il 1985 si è verificata in Italia la
fase più virulenta dell'epidemia di epatite virale tra eroinomani, con una
larghissima circolazione sia del virus B, sia del virus NANB (Non A Non B), sia
del virus D. In alcuni gruppi di tossicodipendenti attivi in quel periodo, sono
state rilevate percentuali di positività per gli indici sierologici per l'HBV
anche superiori al 90% mentre attualmente si osserva un trend discendente
dell'incidenza delle infezioni da HBV.
Come già detto, la situazione epidemiologica
dell'AIDS, in Italia, presenta caratteristiche peculiari per il preminente
interessamento dei tossicodipendenti; essi infatti, rappresentano il 67,2% dei
casi di AIDS in soggetti adulti. La peculiarità del fenomeno risulta evidente
dal confronto con i dati degli altri paesi europei (ad eccezione della Spagna e
della Francia meridionale), nei quali, al contrario, il massimo impatto
dell'epidemia si verifica in omosessuali o bisessuali maschi.
Il precoce ed esteso coinvolgimento dei
tossicodipendenti (soggetti giovani, in età sessualmente attiva, presenti nel
nostro paese in tutte le fasce sociali) e ancor più degli ex-tossicodipendenti,
spesso del tutto socialmente reinseriti, rappresenta un potenziale rischio
aggiuntivo di diffusione attraverso rapporti eterosessuali nella popolazione
aperta e di trasmissione materno - fetale. Infatti, l'Italia si caratterizza,
rispetto agli altri paesi europei, per l'elevato numero di casi di AIDS
pediatrici (prevalentemente nati da madri sieropositive) e per la percentuale di
casi di malattia contratta attraverso rapporti eterosessuali .
Studi su sieri congelati hanno consentito di
ricostruire retrospettivamente la storia dell'epidemia da HIV in diverse
popolazioni di tossicodipendenti italiani cominciata nel 1981 nell'area
metropolitana di Milano e, uno o due anni dopo, impiantatasi saldamente a Roma,
Genova e Torino. Le informazioni raccolte dal Ministero della Sanità, nel 1990,
relative a tossicodipendenti in trattamento presso i servizi di assistenza,
hanno evidenziato una prevalenza media della positività all'HIV del 30,8%, con
ampie variazioni regionali. Infatti, la prevalenza di infezione superava il 60%
nella Provincia autonoma di Bolzano, mentre in Campania era del 5,8%
Se si distinguono i soggetti in trattamento presso
i servizi tra "vecchi utenti" e "nuovi utenti", cioè tra
coloro che hanno iniziato il trattamento in un anno precedente a quello della
rilevazione e quelli che si sono avvicinati ai servizi per la prima volta nel
corso del 1990, si nota che la proporzione di infetti è inferiore fra i nuovi
utenti. Per spiegare questo risultato si deve tener conto che l'età media dei
nuovi utenti è più bassa di quella dei soggetti in trattamento da un maggior
numero di anni. I più giovani hanno una storia di droga più breve e di
conseguenza una minore durata dell'esposizione all'HIV. Inoltre, chi ha iniziato
l'uso endovenoso di droga a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, ha
sicuramente avuto a disposizione una maggiore informazione sul rischio di
infezione da HIV. Bisogna, d'altra parte, tenere presente che i dati,
riguardanti i tossicodipendenti afferenti ai servizi, possono non essere
rappresentativi della popolazione globale; in particolare, i comportamenti
legati all'uso di droga nei tossicodipendenti non in trattamento, potrebbero
differire rispetto a quelli dei soggetti in carico ai servizi.
Considerando le stime del numero di eroinomani e
una prevalenza media del 30%, in Italia il numero di tossicodipendenti
sieropositivi potrebbe aggirarsi intorno ai 50.000 - 70.000; inoltre, poiché i
casi di AIDS oggi notificati si riferiscono ad un contagio che si è verificato
molti anni addietro, si può facilmente immaginare quale sarà l'impatto futuro
dell'epidemia. Per di più, dal momento che i tossicodipendenti sono mediamente
giovani e, quindi, con un tempo di incubazione mediano più lungo, l'epidemia di
AIDS in questa categoria di popolazione tenderà ad allungarsi nel tempo.
Di particolare gravità appare il problema AIDS
nelle carceri, data la costante crescita dei tossicodipendenti presenti, specie
dopo l'approvazione della Legge 162/90. Inoltre in carcere esistono diverse
condizioni favorenti la propagazione dell'infezione, quali l'uso di siringhe in
comune (per la scarsa disponibilità) e la diffusione delle pratiche
omosessuali. La percentuale dei detenuti tossicodipendenti è passata, infatti,
dal 17,3% del 1986 al 29% del 1990 fino al 32% nel 1991 e si avvicina al 40%
nelle regioni in cui il fenomeno della tossicodipendenza è più grave, come la
Liguria, il Lazio e la Lombardia. Inoltre un'indagine su 374 detenuti di Regina
Coeli nel 1991 ha rilevato un tasso di positività per HIV pari al 39,5%, mentre
la ricerca della sierologia per i virus epatitici ha verificato una positività
per almeno un marker per HBV pari al 45,4% e pari al 47,0% per HCV.
Il carcere è oggi la fotografia fedele dei nodi
cruciali della nostra epoca: la povertà del sud del mondo che si accalca alle
porte di quello del benessere vero o presunto ma soprattutto la
tossicodipendenza e la diffusione del virus dell’AIDS. La drammaticità
dell’AIDS, pone tutta una serie di dilemmi legati alla specificità della
“cura” per contrastare questa malattia infezione e alle modalità per
ridurre l’estendersi dell’epidemia.
Com’è noto, nonostante colossali investimenti e
un dispendio di energie scientifiche e finanziarie che non ha precedenti, ancora
non c’è un vaccino per prevenire l’AIDS ne’ un farmaco capace di
guarirlo. Per ora, per rallentare il decorso dell’AIDS vi è la disponibilità
di una categoria di farmaci, gli inibitori delle proteasi che vengono ad
aggiungersi agli inibitori della transcriptasi inversa, ad esempio l'AZT. Gli
inibitori delle proteasi intervengono anch'essi nella fase di moltiplicazione
virale, inibendo alcuni enzimi che sono fondamentali per comporre e ricomporre
il virus nelle sue replicazioni; questi farmaci danno maggiori risultati quando
vengono associati agli inibitori della transcriptasi inversa, ecco che allora si
parla di terapia tri o quadri combinata, cioè con 3 o 4 farmaci ai quali si
possono aggiungere nuovi composti come il 3 Tc.
Uno dei vantaggi nell'usare più farmaci insieme è
che vengono ridotti gli effetti collaterali di ciascuna sostanza. Sono prodotti
comunque molto delicati che devono essere assunti sotto prescrizione e
sorveglianza sanitaria; questo perché possono essere incompatibili con altri
farmaci come alcuni antibiotici che vengono invece usati per le patologie
correlate all'AIDS, cioè quelle che si sovrappongono all'infezione da HIV.
Inoltre questi farmaci sono utilizzati da relativamente poco tempo; quindi non
se ne conoscono ancora bene le conseguenze sui tempi medio-lunghi, sia per
quanto riguarda gli effetti collaterali sia in relazione al possibile
svilupparsi di resistenze virali attraverso meccanismi di modificazione del
virus capaci di renderlo insensibile a queste sostanze.
Uno dei problemi che si pone oggi per le persone
con infezione da HIV in fase avanzata è che si trovano in questo momento a
dover assumere 10, 15 pastiglie al giorno: un inibitore delle proteasi, due
antiretrovirali inibitori della transcriptasi inversa (ciascuno di questi
farmaci può comportare più assunzioni giornaliere), ai quali si sommano spesso
i farmaci per le patologie correlate. Questa situazione incide negativamente
sulla qualità della vita della persona. In alcuni casi la somministrazione di
questi farmaci non è limitata solo a chi è nella fase estremamente avanzata
della malattia, cioè chi ha meno di 50 linfociti T4 ma vengono prescritti anche
a pazienti caratterizzati da una situazione intermedia dell'infezione da HIV.
Di
particolare interesse per la sua ricaduta nel settore carcerario è che ormai si
sa con precisione che non possiamo più basarci unicamente sulla conta dei
linfociti T4 per poter esprimere un valore predittivo e prognostico
relativamente all'evoluzione della malattia. Il numero dei linfociti T4 mantiene
un suo significato, al quale va aggiunta un'analisi dei linfociti T8; per
ambedue le famiglie di linfociti non si tratta di analizzare semplicemente il
numero assoluto ma anche la velocità del trend di discesa. Inoltre vanno
analizzati altri indicatori come ad esempio la presenza o meno dell'antigene P24
e la “forza” della carica virale presente. Questo a un nuovo esame,
realizzabile per il momento in pochi ospedali in Italia, che individua la
quantità di virus presente, attivo e la velocità di replicazione del virus
stesso. Queste e altre metodologie per la dichiarazione dello stato conclamato
di AIDS finiscono per scaricare sul medico problemi che sono sociali e politici
e sui quali credo valga la pena di soffermarsi.
Come è noto la legge 222/93 escludeva dal
trattamento carcerario gli ammalati conclamati di AIDS. In seguito, anche al
forte allarme sociale suscitato da alcuni casi di persone sieropositive
scarcerate con la legge 222 che tornavano a commettere reati (ad esempio, la
cosiddetta “ “Banda dell'AIDS” di Torino) la Corte Costituzionale tornava
sul proprio indirizzo giurisprudenziale con due sentenze (n. 438 e 439 del 1995)
che stabilivano l'illegittimità della legge 222 nella parte in cui non consente
al giudice di accertare in concreto in che misura “le effettive condizioni di
salute del condannato siano o meno compatibili con lo stato detentivo”. In
sintesi la Corte riteneva che il rigido automatismo che la legge 222 aveva posto
tra livello di linfociti e scarcerazione fosse illegittimo, in quanto
l'incompatibilità tra malattia e detenzione e la pericolosità del detenuto per
la salute dell'ambiente penitenziario dovevano essere valutate volta per volta
dal magistrato anche in considerazione delle effettive condizioni di salute del
detenuto e della capacità delle strutture del singolo istituto carcerario di
poter far sì che “l'esecuzione della pena possa avvenire senza pregiudizio
per la salute della restante popolazione carceraria”. Tale motivazione,
tuttavia, provocava ulteriori critiche da parte della dottrina: secondo alcuni
la sentenza della corte stravolgeva in una logica di mero allontanamento
dall'istituzione carceraria dei detenuti infettivi, la finalità originaria
della legge 222 che era quella di umanizzare l'esecuzione della pena; altri,
partendo dalla centralità che la Corte sembrava assegnare all'aspetto infettivo
della patologia AIDS, ponevano l'accento sull'impossibilità di motivare
razionalmente il trattamento differenziato di due categorie di soggetti (quelli
in AIDS conclamato automaticamente scarcerabili e quelli semplicemente
sieropositivi scarcerabili a discrezionalità del magistrato) entrambe
egualmente contagiose. Recentemente la “Legge Corleone”, appena varata dal
Parlamento, ribadendo sostanzialmente l’incompatibilità tra AIDS conclamato e
carcere, ripropone l’impostazione della legge 222 ma crediamo che anche questa
legge rischi di essere sostanzialmente disattesa e/o abrogata al verificarsi di
una qualche nuovo clamoroso caso di tossicodipendenti affetti da AIDS che, certi
dell’impunità, riproporranno gli stessi misfatti della “Banda
dell’AIDS” di Torino.
La,
certamente insoddisfacente, “terapia” dell’AIDS e il conflitto, a prima
vista irrisolvibile, tra AIDS e detenzione sollecitano almeno due riflessioni
che credo debbano investire il mondo medico: la prima è la liceità di terapie
alternative a quelle ufficiali per curare l’AIDS, la seconda riguarda una
articolazione diversa della lotta all’eroina.
Gli ultimi anni hanno visto il nascere di gruppi e
di comunità di persone sieropositive che cercano di proporre, anche
all’interno di strutture quali quelle carcerarie, terapie alternative (basate,
soprattutto, sull’omeopatia e sulla medicina tradizionale cinese) per sconfiggere l’AIDS. Si tratta spesso di comunità
formate da persone sieropositive motivate dalla giusta esigenza di essere
considerate soggetti attivi e non solo oggetti di una terapia e che si trovano
ad operare in una situazione di forte frammentazione, spesso aggravata dalla
discriminazione e stigmatizzazione di cui sono ancora oggetto. Il percorso che
ha portato gli aderenti a questi gruppi a questa scelta non è omogeneo. In
alcuni casi si tratta di persone che comunque e indipendentemente dalla
sieropositività fanno uso di medicine quali l'omeopatia, l'agopuntura, la
fitoterapia ecc. ed hanno ritenuto di proseguire su questa strada; in altri casi
sono persone che davanti alla necessità di intraprendere una cura, preferiscono
prima sondare strade terapeutiche meno invasive e potenzialmente iatrogene;
oppure che, dopo lunghe terapie antiretrovirali (AZT), di fronte
all'interruzione delle stesse, a causa del venire meno dell'efficacia, per
l'intervento di tossicità o per la selezione di ceppi virali resistenti,
ricercano altri prodotti; in altri casi, infine, si tratta di persone che non
possono rientrare nei protocolli di trattamento con AZT o altro a causa della
non reggibilità della terapia o che, nella condizione terapeutica di assumere
farmaci in alti dosaggi, tenta quantomeno di contenerne gli effetti collaterali.
La presenza di questi interlocutori pone al medico
inserito all’interno di una struttura pubblica, soprattutto se si tratta di
quella carceraria, numerosi problemi in primo luogo per la ridotta conoscenza e
circolarità delle conoscenze inerenti alle terapie alternative. Non esistono
infatti soddisfacenti follow-up e casistiche che permettano di valutare
compiutamente l’efficacia di queste proposte terapeutiche “alternative”,
caratterizzate, quasi sempre, da una sostanziale mancanza di “ufficialità”
e di contesti di riconoscimento; una circostanza questa che permette e favorisce
la convivenza di proposte terapeutiche che pure sembrerebbe abbiano fatto
registrare alcuni successi valide con "rimedi" di ciarlatani.
Non bisogna, comunque, avere preclusioni su alcuna
forma di terapia che rispetti l'uomo e la sua salute, che ponga quale priorità
la massima di Ippocrate che, in prima istanza, le medicine non devono nuocere.
Bisogna fare in modo che le sovrastrutture ideologiche e il conformismo che
spesso accompagnano la professione medica non debbano contrarre il diritto alla
scelta terapeutica del cittadino. Forme di intolleranza e di dissuasione
autoritaria nei confronti dei pazienti non sono tollerabili da parte di chi ha,
oggettivamente, nei confronti del paziente una posizione di privilegio
intellettuale, medico e di risorse dialettiche. Più in generale la supremazia
culturale non può essere strumento di contrazione delle libertà individuali,
la posizione sociale non può essere usata per influenzare e/o determinare le
scelte delle persone relativamente alla salute, che è un bene comune e
inalienabile della persona. A tale proposito, ritengo debba essere un preciso
dovere del medico garantire la più ampia conoscenza su tutte le terapie finora
approntate per sconfiggere l’AIDS quando queste abbiano fatto registrare una
qualche esperienza positiva e siano caratterizzate dall’assenza di provata
tossicità.
La seconda questione d’ordine bioetico, prima che
ancora politico e sociale, riguarda la strada più opportuna per sconfiggere la
oramai endemica diffusione dell’eroina che, come è noto è la causa, più o
meno diretta, della detenzione della maggior parte dei detenuti, italiani e
stranieri.
Spesso sulla tossicodipendenza si sono create
contrapposizioni politico-ideologiche che hanno finito col bloccare qualsiasi
dibattito sulla modalità di intervento; per quel che riguarda la prevenzione
dell'AIDS tra i tossicodipendenti e ripercussioni sulla politica di prevenzione
si sono avute anche a livello istituzionale quando nel 1989 un documento della
Comunità europea che prevedeva programmi mirati di distribuzione di siringhe
sterili ai tossicodipendenti non è stato sottoscritto dal rappresentante del
governo italiano.
Semplificando al massimo, si può affermare che
esiste un inconciliabile antagonismo che divide in due schiere coloro che si
occupano di tossicodipendenze. I cosiddetti "pragmatici" e i
cosiddetti "sostenitori di valori assoluti". Per questi ultimi, la
posizione può essere espressa dallo slogan "la lotta all'AIDS si fa
dichiarando guerra alla droga", apparentemente innocuo e condivisibile da
tutti. Esso sottintende infatti che per prevenire la diffusione dell'AIDS è
necessario ingaggiare una guerra al fine di sconfiggere il consumo di droghe
illegali. Ciò è nettamente in contrasto con l'approccio cosiddetto pragmatico,
in voga in alcuni paesi nordeuropei, che privilegia la filosofia della riduzione
del rischio: una siringa pulita in cambio di una sporca, metadone (o,
addirittura, eroina pura) in luogo di eroina da strada... e che si pone come
obiettivo prioritario quello di prevenire un'infezione letale, a prescindere da
pregiudizi o condanne moralistiche, e di favorire un avvicinamento del
tossicodipendente alle strutture sanitarie che possono così aiutarlo ad uscire
dal suo calvario.
Secondo un documento redatto da una commissione
della Comunità Europea due sono le premesse fondamentali per iniziare questo
avvicinamento e sviluppare campagne informative rivolte ai tossicodipendenti. La
prima è che devono essere rigidamente distinti i messaggi finalizzati a
limitare la diffusione della sieropositività dalle campagne contro la
diffusione dell'eroina. In tal modo risulta più facile evitare possibili
reazioni di fuga o di rifiuto da parte dei tossicodipendenti con i quali si
cerca di entrare in contatto. La seconda è che si deve intervenire direttamente
sulle vie di trasmissione fornendo strumenti concreti di profilassi. Più in
generale, secondo la Commissione è fondamentale attivare strategie di
prevenzione che sappiano convivere con la tossicodipendenza laddove tale realtà
non sia in tempi brevi modificabile, evitando quindi la trasmissione del virus
HIV. Tale obiettivo presuppone la necessità di operare e interagire con persone
dedite all'uso di sostanze stupefacenti che non mostrano, almeno per il momento,
intenzione di uscire dalla dipendenza; il cosiddetto programma di prevenzione
mirata alla "riduzione del rischio" (il cosiddetto “risk
minimization” secondo gli autori anglosassoni).
Non abbiamo qui la pretesa di dire una parola
definitiva sull'opportunità di queste campagne di intervento che, attraverso
l'informazione sul cosiddetto "buco pulito", se da una parte possono
consentire di ottenere una riduzione della morbilità e mortalità per patologie
infettive legate all'uso dell'eroina, dall'altra, secondo numerosi osservatori,
rischiano di "legittimare" l'assunzione di eroina, un comportamento
questo che non può essere certo affidato alla "libera scelta" del
consumatore. Quello che ci preme, comunque sottolineare è che l'impegno del
medico in queste campagne informative pone ad esso drammatici problemi di ordine
etico che mettono in discussione lo stesso Giuramento di Ippocrate.
Nonostante ciò, in molti paesi europei, svanite le
speranze di risolvere il problema droga cercando di convincere il
tossicodipendente a smettere l'assunzione di eroina e rivelatesi fallimentari a
livello mondiale le pur colossali iniziative repressive e giudiziarie, molti
medici e personale paramedico stanno fattivamente collaborando a questo tipo di
iniziative confortate anche dal parere espresso nel 1988 dall'autorevole Advisory Council on the Abuse of Drugs del governo britannico:
"Non abbiamo alcuna esitazione a concludere che la diffusione dell'HIV
costituisce per la salute individuale e collettiva un pericolo maggiore di
quello dell'abuso di droga".
Parallalelamente
a ciò, sulla scia delle esperienze statali intraprese in Gran Bretagna e in
Svizzera, nel mondo medico si va strutturando un acceso dibattito
sull'opportunità di somministrazione controllata di eroina agli eroinomani che
si sono dimostrati restii ad ogni trattamento di disintossicazione. È questa
un'iniziativa che merita un attento e approfondito dibattito ma che rischia di
far passare in un immeritato secondo piano un'altra iniziativa - la
somministrazione di metadone - che pure ha avuto un ruolo non indifferente nel
contenimento delle infezioni virali tra i tossicodipendenti. Studi condotti
negli Stati Uniti dimostrano, infatti, che il tasso di prevalenza di HIV era
inferiore in soggetti che avevano iniziato un programma di mantenimento con
metadone prima del 1983. La stessa situazione della regione Campania, che vede
una quota relativamente ridotta di tossicodipendenti affetti da virus HIV -
verosimilmente a seguito della somministrazione di metadone che in questa
regione negli anni passati è stata più elevata rispetto al resto del Paese -
dovrebbe far riflettere.
Di certo il problema droga, alimentato da un
inquietante senso di autodistruttività che sembra sorgere dal mondo giovanile e
cementato da interessi potenti e ramificati risulta difficilmente risolvibile a
breve scadenza. E la tragedia della droga negli ultimi decenni, nonostante
l'impegno, spesso eroico, di operatori sanitari, forze dell'ordine, giudici,
operatori carcerari... ha conosciuto una spaventosa escalation della quale i
ragazzi morti per overdose in carcere, per strada o per AIDS in qualche ospedale
sono soltanto la punta di un iceberg. E al di là del contributo che può dare
la Medicina, la soluzione di questo problema risulta essere enormemente
complicato ponendo in discussione profondi principi etici, come nel caso di
campagne informative rivolte a coloro che persevereranno nella tossicodipendenza.
Di certo quello che non possiamo fare è illuderci che il dramma della droga
possa essere esorcizzato con anatemi o appellandoci a guerre sante che sono
state già combattute e perse.